01 maggio 2017 16:25

Brian Reed lavora come producer per uno dei programmi di storytelling radiofonico più famosi del mondo, This american life. Un giorno riceve un’email che ha come oggetto: “John B. McLemore lives in Shittown, Alabama”. A quella email ne seguiranno altre, nei mesi seguenti, in cui John dice di essere sicuro che nella cittadina in cui vive, in Alabama, è stato commesso un omicidio e l’assassino gira indisturbato per la città.

Brian ha una lunga conversazione telefonica con John per cercare di capire se l’uomo è un mitomane oppure se in quello che dice c’è qualcosa di vero. Poi quando capisce che a Shittown potrebbe davvero essere accaduto qualcosa di misterioso, prende un aereo verso il sud degli Stati Uniti, dove proverà – con le tecniche del giornalismo investigativo e l’arte della narrazione – a risolvere quello che la polizia non ha mai potuto o voluto capire in otto episodi, che si fanno ascoltare tutti d’un fiato.

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Cosa ascoltare
S-Town è il secondo spin-off di This american life, il programma che ha reso lo storytelling una moda e che due anni fa ha dato vita a Serial, il primo podcast seriale capace di arrivare in poche settimane a centinaia di migliaia di download in tutto il mondo. S-Town, l’ultima creatura nata nella serra del produttore/mentore Ira Glass, ha dettato un nuovo standard per la produzione audio: sia per la costruzione narrativa, sia per lo stile e la profondità dei contenuti. Per questo merita di essere ascoltato fino in fondo.

Da questo punto in poi, però, parte una critica radicale nei confronti del podcast nella quale farò un uso spregiudicato degli spoiler – quindi mettete l’articolo da parte, ascoltate il podcast e poi proseguite con la lettura.

L’ambizione e l’ottima capacità produttiva che sono stati messi in campo per S-Town lo hanno reso prezioso perché, paradossalmente, mostra in modo più evidente che in altri podcast l’inutilità assoluta della teoria e della pratica dello storytelling, ovvero di una presunta arte, dotata di opportuni strumenti del mestiere, di “saper raccontare le storie”.

Dopo lo stupore iniziale per la cura del suono e della scrittura – e senza farsi condizionare dall’emotività alla quale siamo stati costretti durante l’ascolto – emerge che S-Town è un podcast che parla di niente. Dopo otto lunghi episodi, per un totale di quasi otto ore, l’unica cosa che rimane nel setaccio della nostra esperienza d’ascolto è la sensazione di aver fatto un viaggio senza spostarsi di un metro dal punto di partenza, durante il quale qualcuno ci ha parlato di qualche prodotto che dovremmo comprare.

Ogni episodio conduce a un’ipotetica pista oscura (un probabile omicidio impunito, un tesoro misterioso, un’intossicazione da mercurio) che, all’inizio dell’episodio successivo, si scopre non avere alcun valore come punto di svolta della vicenda.

L’unica sostanza nella storia raccontata da S-Town è la morte di un uomo che andrebbe rispettata come scelta personale dettata dal non riuscire a trovare un angolo di pace nell’ingranaggio di ingiustizie che lo ha risucchiato durante la sua vita. Poi emerge un pregiudizio compassionevole – rigorosamente bianco e benestante, come praticamente tutto il mondo dei podcast – rispetto alla povertà in cui vivono gli abitanti delle zone rurali statunitensi.

Per più di vent’anni This american life ha usato lo storytelling come una pompa petrolifera per estrarre storie dalla realtà sociale: 613 episodi e un podcast da 250 milioni di download dopo, il serbatoio si è esaurito, le storie sono finite, le abbiamo ascoltate più o meno tutte e niente ci sorprende più. Oggi, saper raccontare una storia senza saperne creare, guardare la vita degli altri senza dare una nuova forma alla realtà e immaginare nuovi orizzonti umani e relazionali, non serve a nulla. La radio non ha più bisogno di storyteller, ma di autori: professionisti in grado di prendere una storia, anche semplice, e di darle una nuova vita.

Cosa ascoltare subito dopo S-Town
Per fortuna il mondo dei podcast riesce a dare il meglio di sé anche nei momenti meno incoraggianti. Per ogni S-Town ingiustamente lodato c’è un’opera d’arte che cresce nell’ombra e si ritaglia un suo spazio.

Sembra infatti che negli anni novanta McDonald’s avesse provato a inserire nel menù anche la pizza. Poi, improvvisamente, è scomparsa. Per quale motivo? Quale mistero si nasconderà dietro? Ma soprattutto, che gusto aveva?

A queste domande oscure prova a rispondere il giornalista investigativo Brian Thompson nel podcast Whatever happened to pizza at McDonald’s.

Le 31 puntate di circa cinque minuti della prima serie (che finiscono con una delle frasi più stupide e geniali che la radio ricordi) sono impossibili da fermare. Thompson riesce a dissacrare ogni vezzo da giornalista costringendo l’ascoltatore (come’è successo al sottoscritto) a scendere dall’autobus per ridere in santa pace.

Whatever happened to pizza at McDonald’s è un antidoto contro la mediocrità dei podcast superstar, e contro la durezza della vita in genere.

Momento migliore di S-Town
Il finale (perché finisce).

Momento migliore di Whatever happened to pizza at McDonalds
You do?

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