19 maggio 2017 18:12

Il rock è morto, si sente dire in giro da un po’ di tempo. Può sembrare una frase fatta ma non è del tutto campata per aria. Il rock, per come l’abbiamo inteso fino a un decennio fa, ha perso la capacità di influenzare la cultura e la società ed è diventato un genere di retroguardia, una materia per collezionisti di dischi. È rimasto rilevante solo quand’è riuscito a contaminarsi con gli altri generi, ad aprirsi al mondo.

Il rap, invece, è un’altra storia. Nonostante esista dagli anni settanta, ha ancora una vitalità invidiabile, soprattutto fuori dai nostri confini.

Salmo è da qualche anno il musicista italiano che rappresenta meglio questo cambiamento storico. Le canzoni del rapper di Olbia, classe 1984, attraversano i generi, mescolando l’hip hop con il punk, l’hardcore con l’elettronica, e trasmettono una profonda urgenza espressiva. I suoi testi sono provocanti, sopra le righe, ma mai gratuiti e fini a sé stessi.

“I rapper sono i nuovi rocker”, sottolinea Salmo seduto nel suo camerino all’Atlantico di Roma, dove sta per cominciare l’ultima data del suo tour primaverile, che l’ha portato in giro per l’Italia e l’Europa, con tappe anche a Londra, Amsterdam e Berlino. Ha i capelli biondo platino, una maglietta bianca a maniche corte, dalla quale vengono fuori i tatuaggi.

Com’è andato il tour europeo? Che effetto fa suonare fuori dall’Italia?
Mi piace. Dieci anni fa ho fatto un tour europeo con la mia vecchia band punk hardcore, gli Skasico. Ero giovane e cantavo in inglese maccheronico, spesso di fronte a tre o quattro persone. Nel tour del 2017 invece c’era un po’ più di gente, ovviamente, per la maggior parte italiani. Stavolta avevo voglia di tornare in una dimensione da club, perché dopo tanti anni abbassare un po’ la cresta non fa male. Nella mia carriera mi sono esibito di fronte a un pubblico sempre più numeroso, anche cinquantamila persone, e tornare indietro è stato salutare. Tanto per me rappare davanti a trenta o tremila persone non fa differenza. Anzi, quando c’è poca gente viene fuori una specie di istinto di sopravvivenza, la voglia di dimostrare che so portarla a casa lo stesso. Non importa quanti spettatori ho di fronte, lo show dev’esserci sempre.

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Dal 2016 porti in giro il tuo ultimo disco, Hellvisback. Che impressione ti fanno adesso questi brani?
È un lavoro importante, maturo. È il fratello maggiore di The Island chainsaw massacre, il mio album d’esordio del 2011. Il concetto di fondo è lo stesso, un miscuglio tra il rock, l’elettronica e il rap più crudo. Midnite, il disco precedente, era diverso: mi ero concentrato sui testi. Stavolta ho lavorato di più sui suoni e ho scritto le parole all’ultimo, di getto. Volevo fare qualcosa di spontaneo.

Un paio di pezzi hanno uno stile quasi blues…
Certo, il singolo 1984 è vero blues, con quel botta e risposta tra chitarra e voce. Le canzoni sono ispirate alla figura di Elvis Presley: lui ha creato il rock’n’roll, mischiando la musica dei bianchi con quella dei neri. Vale anche per la copertina: volevo prendere una figura molto retrò come la sua e fonderla con la mia maschera da teschio. Del resto i rapper sono i nuovi rocker. Il rock è morto, tranne nei casi in cui si mescola con altri generi.

Stai già pensando al nuovo album?
Sì, ho in mente qualcosa. Probabilmente comincerò a lavorare ai primi beat subito dopo la fine del mio tour estivo. Non so ancora se farò un altro lavoro con la band o una cosa da solo, vediamo. Sono istintivo, non mi piace pianificare troppo.

Sei soddisfatto di come sono venute dal vivo le canzoni di Hellvisback?
Molto. È difficile oggi fare un disco e portarlo in giro per più di un anno. Il concerto è la chiave di tutto, anche a livello economico. Vendere i dischi non ti fare più soldi, con i concerti se ne fanno molti di più. Se in studio sei una macchina e dal vivo sei una pippa, non durerai.

Cosa ne pensi della musica in streaming e del modello Spotify? Non credi che penalizzi i musicisti?
È un meccanismo che non può fermare nessuno, ormai fuori dall’Italia l’hanno capito perché sono meno conservatori di noi. Quindi va bene così. Non me ne frega un cazzo di guadagnare soldi dai dischi, anche se in questi anni l’ho fatto. Il guadagno, come dicevo prima, arriva dai concerti. E io me li sudo questi soldi, perché quando vieni a vedermi dal vivo capisci che sono uno che si fa il culo. Io la musica la posso anche regalare, l’importante è che le persone vengano ai concerti.

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Nei tuoi testi citi spesso i mezzi d’informazione, il loro impatto negativo sulla nostra vita. È per questo che ti esponi così poco, che non vai quasi mai in televisione?
Quella è una rovina. In Italia se vai in tv diventi un personaggio e alla gente interessa solo il tuo stile di vita, non quello che fai. Il lato artistico viene messo in secondo piano. Se chiedi a un ragazzino chi è Morgan ti dirà che è solo un tossico. Ma lui non è solo uno che fa la vita spericolata, è un musicista geniale, una persona di grande cultura. Mi hanno chiesto di fare il giudice a X Factor, lo ridico anche se molti non ci credono, ma non me ne fregava un cazzo di andarci. Dopo il mio rifiuto, hanno chiamato Manuel Agnelli. Magari quando avrò l’età di Agnelli ci andrò anche io. Al momento i dischi li vendo lo stesso, anche senza radio e tv.

Cosa ne pensi dei nuovi rapper italiani? Ti piace la trap?
Quelli che stanno uscendo ora, come Ghali e Sfera Ebbasta, hanno un pubblico di giovanissimi che li segue con affetto. È normale. Questi rapper hanno una scrittura pop, molto semplice. Negli anni novanta Neffa usava il suo slang, perché sapeva di parlare a una nicchia. Ora il rap si è mescolato alla musica leggera, non ti rimangono in testa le rime e i concetti. Quando ero ragazzino e ascoltavo Primo Brown, mi si piantavano nella testa le immagini che evocava nei suoi pezzi. Dei rapper nuovi invece ti rimane solo la melodia. E questo per me è un male, perché si perde il valore delle parole. Spero che venga fuori un giovane in grado di mettere insieme melodia e testi. Ghali mi piace, ma è pop, cerca sempre lo slogan. Molti dei pezzi trap sono pensati per lo studio, non rendono altrettanto bene dal vivo. Qualcosa di nuovo che mi piace c’è, per esempio ho sentito un pezzo di Liberato e mi è sembrato figo, sembrava una roba americana.

A proposito di Stati Uniti, chi ascolti di più tra gli stranieri?
I Run the Jewels sono i più originali. Gli altri sono tutti simili, a parte Kendrick Lamar, Kanye West e pochi altri. Tra poco ci sarà sicuramente un altro cambio generazionale, perché con la globalizzazione tutto muta velocemente e questo non è sempre un bene.

In che senso?
C’è un pericolo. A livello musicale siamo abituati a vivere la musica per decadi: sessanta, settanta, ottanta e così via. Ogni dieci anni c’era una svolta. Negli ultimi tempi, con la diffusione di internet, si è accorciato tutto. Piano piano siamo passati a piccoli cicli di cinque anni, tre anni, un anno, sei mesi. Se nei decenni scorsi in America esplodeva una moda, arrivava qui più tardi e si riusciva ad assimilarla, ora no. C’è bisogno di tempo per capire i dischi. Altrimenti la musica non rimane, a meno che tu non faccia qualcosa di epocale. Per gli artisti come me è stressante.

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Non conviene allora andare in controtendenza? Sparire per un po’ dai riflettori?
No, se lo fai è finita, devi restare sempre sul pezzo. Drake fa un disco all’anno, lo stesso Kendrick Lamar o Schoolboy Q pubblicano molta roba. È dura, perché sei costretto a buttar fuori un sacco di pezzi. Ma io che cazzo scrivo, se faccio un album e poi sto un anno in giro a suonare? Anche perché non mi faccio certo scrivere le canzoni dagli altri, come fa qualcun altro.

Spesso tu, come tanti altri rapper, scrivi dei testi politicamente scorretti. Non ti penti mai delle cose che canti?
Il rap non è musica di protesta, esiste da trent’anni e, anche se è nato come genere di protesta, non potrà esserlo per sempre. Il rapper non deve fare la predica, perché noi siamo la peggior specie che esiste e non possiamo insegnare agli altri come vivere. Quello che ho scritto, e che continuerò a scrivere, mi rappresenta bene. Mi piace provocare. Non ho mai dichiarato che la mia musica debba essere presa alla lettera. Il rap è come una chiacchierata tra amici al bar. Spesso il giorno dopo ti svegli pensando: “Che cazzo ho detto ieri?” e magari un po’ te ne penti. Però in quel momento lo pensavi. Questo è il rap.

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