05 ottobre 2015 21:36

Nell’evento di chiusura del Festival Internazionale 2015 Adriano Sofri, scrittore, conversa con Zerocalcare, fumettista romano. Modera l’incontro il giornalista Marino Sinibaldi con la collaborazione del direttore di Internazionale Giovanni de Mauro.

L’incontro si apre con un richiamo a ciò che unisce questi due «atipici comunicatori» – come li definisce Sinibaldi – in apparenza così diversi: l’ossessione crescente per l’emergenza umanitaria che coinvolge il vicino Oriente. «Ossessione è la parola giusta», commenta Sofri, «mi dichiaro ossessionato da questa strage a senso unico, un orribile genocidio che stiamo lasciando correre». Anche l’Europa non molto tempo fa ha sperimentato questa barbarie con Auschwitz, ricorda Sofri, ma «in quel caso, chi deteneva il potere negava la strage e voleva tenerla nascosta: il genocidio presente viene invece sbandierato sotto gli occhi di tutti, e noi possediamo tutte le informazioni necessarie». Anche Zerocalcare è d’accordo sul termine ossessione, e aggiunge: «nel mio caso, pensare che possa esistere qualcosa di simile al ʻmale assolutoʼ mi spinge a cercare una qualche forma di bene, cosa che ho trovato nel Rojava». I curdi della regione di Kobane stanno infatti costruendo «una società nuova basata su un’emancipazione di fatto», dove le donne hanno un potere reale, c’è una diversa distribuzione del reddito e un rapporto più profondo col territorio. In particolare, «diverse etnie riescono a convivere nel rispetto delle differenze reciproche, al contrario dell’Occidente che vuole assimilare tutto a se stesso».

Sinibaldi interviene, quindi, chiedendo agli ospiti se ritengono che questa situazione drammatica possa dare vita ad una «possibilità creativa» come forma di militanza. Risponde Sofri, partendo da un commento sul lavoro di Zerocalcare: «Prima di questo incontro non sapevo nulla di Zerocalcare o di fumetti, ma leggendo i suoi lavori mi sono accorto che la loro forza risiede nella combinazione strettissima tra la vita dei curdi in Syria e quella di Zerocalcare a Rebibbia, che diventano inscindibili: la sua storia e il viaggio si completano. In questo senso, Zerocalcare è un militante». Parlando del concetto di militanza, Sofri si dice diffidente del giornalismo di oggi poiché «ci sono delle situazioni che esigono di essere trattate con il cuore, mentre spesso il giornalista, anche bravo, è solo un traduttore di informazioni. Si sente un’assenza delle persone». Questo è il motivo per cui, secondo Sofri, l’opinione pubblica è stata fortemente scossa dalla foto del bambino sulla spiaggia di Bodrum, «perché non c’entrava niente col giornalismo: non era una spiegazione, era un’immagine arrivata a spostarci violentemente dalla nostra tranquillità». Sulla militanza, conclude affermando che non è facile sapere da che parte stare nei luoghi dove non si rischia la vita, ma che comunque scegliere è necessario; qui è militante, per Sofri, chi non considera un’utopia irrealizzabile il fatto di istituire una «polizia internazionale» che si occupi di difendere gli esseri umani in pericolo a prescindere dagli interessi nazionali.

La parola passa poi a Zerocalcare. «Il problema che mi pongo è soprattutto quello di fare qualcosa che serva, per questo vado in Rojava», risponde. «A me serve di vedere il buono, non mi basta vedere il male per capire da che parte stare e starci – ho bisogno di sentire un’affinità con il luogo e con le persone. Con i miei disegni poi faccio una piccola cosa, ma questa mette in moto altre forze e persone, e il meccanismo si allarga». Sinibaldi chiede al fumettista se pensa che le immagini abbiano una forza particolare rispetto alla parola. «Penso di sì, l’immagine travalica, anche lei mette in moto cose», risponde. «Mi hanno anche chiesto se sono d’accordo con la pubblicazione delle immagini shock di questo periodo. Non lo so. Ma se quell’orrore serve a suscitare qualcosa, un cambiamento, allora ben venga. La risposta è comunque soggettiva».

Si passa poi a parlare di giornalismo e informazione. Entrambi gli ospiti dichiarano di non sentirsi giornalisti, e di essere in generale diffidenti o estranei ai canali di informazione tradizionali. Giovanni de Mauro, allora, sottolinea come sia paradossale che due persone che i giornali non li leggono sentano comunque il bisogno di apparire sulla carta stampata: perché? «Ho bisogno della carta perché su certi temi ho l’esigenza di riflettere, di prendermi spazio. E se uno compra il giornale, anche solo per il gesto, vuol dire che è predisposto ad approfondire», risponde Zerocalcare. Sofri ribatte: «Scrivo sui giornali perché mi fa piacere avere dei luoghi in cui dico la mia del tutto liberamente; sono molto rattristato dalla scomparsa del cartaceo, spero che rallenti»; «Quando una volta il mio editore mi ha chiesto se volevo uscire online o su ʻsupporto cartaceoʼ ho capito che perla mia generazione era finita», conclude.

(Alice Marsili)

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