15 febbraio 2017 17:33

Enrique Metinides (1934) aveva dodici anni quando ha fotografato per la prima volta un cadavere. A tredici era diventato l’assistente di un fotografo di cronaca nera che lavorava per il giornale messicano La Prensa, guadagnandosi il soprannome di El niño.

Dal 1948 al 1979 ha scattato migliaia di foto e seguito centinaia di storie a Città del Messico, dove è nato e cresciuto: incidenti d’auto, treni deragliati, aerei caduti sui tetti, omicidi e suicidi, appartamenti e stazioni di benzina in fiamme, terremoti.

Molti critici lo considerano il Weegee messicano. Ma a differenza dello statunitense Weegee, che per arrivare sulle scene del crimine si sintonizzava sulla radio della polizia, Metinides faceva il volontario per la Croce crossa, arrivando sul posto insieme agli infermieri e ai medici.

“La sua arte, se così possiamo chiamarla, è un catalogo sulla morte e sulla sofferenza, in tutta l’assurda casualità colta nel quotidiano. Ma è anche molto più di questo. È un catalogo sull’intrusione, perché le sue foto ci rendono tutti dei voyeur”, ha affermato il giornalista Sean O’Hagan.

La composizione e lo stile cinematografici delle sue immagini, come sostiene la curatrice e regista Trisha Ziff nell’introduzione del libro The 101 tragedies of Enrique Metinides, sono elementi caratteristici di Metinides così come la sua compassione e il senso di responsabilità che ha sempre avuto verso le vittime.

La Michael Hoppen gallery di Londra dedica una grande mostra al fotografo messicano fino al 24 marzo 2017, dove sarà proiettato anche il documentario diretto da Trisha Ziff e intitolato The man who saw too much.

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