12 dicembre 2015 15:10

Tra molteplici ritardi e minacce alla sicurezza, dopo due anni di caotica transizione e sotto una forte pressione internazionale, la Repubblica Centrafricana avanza a marce forzate verso le elezioni “dell’ultima possibilità”, che saranno precedute il 13 dicembre da un referendum costituzionale.

Si spera che il primo turno delle presidenziali e delle legislative, in programma il 27 dicembre, rimetta in carreggiata il paese e chiuda la più grave crisi della sua storia dalla proclamazione della sua indipendenza, nel 1960. Intanto i centroafricani saranno chiamati alle urne domenica prossima per approvare la nuova costituzione, con un referendum che molti considerano come un test.

Circa due milioni di centroafricani, su una popolazione totale di 4,8 milioni di abitanti, si sono iscritti alle liste elettorali, a riprova dell’interesse suscitato dal voto.

Ma l’atmosfera non ha niente dell’entusiasmo preelettorale che ci si aspettava. Nelle principali strade di Bangui, solo alcuni sparuti striscioni invitano a votare “sì” al referendum, affermando che “la pace è nelle urne”. La costituzione è stata stampata in quindicimila esemplari ma pochi centroafricani affermano di conoscerne le linee generali.

“Non ho ancora la mia tessera elettorale. Si può votare con una semplice ricevuta o una carta d’identità?”, si chiede, come fanno in molti, Natacha, una maestra che vive in un campo profughi dopo l’ultima ondata di violenza, che ha provocato la morte di oltre cento persone a Bangui dalla fine di settembre e ha visto scontrarsi, come al solito, giovani miliziani anti-balaka, perlopiù cristiani, e gruppi musulmani di autodifesa.

Altra nota stonata: con le procedure di registrazione ormai chiuse, solo il 26 per cento delle 460mila persone rifugiate nei paesi vicini, in gran parte musulmani scappati dal paese tra il 2013 e il 2014, ha potuto iscriversi.

La comunità internazionale spinge alle elezioni, considerandole una tappa necessaria per uscire dalla crisi

Rinviate varie volte a causa del prolungarsi dell’instabilità del paese, queste scadenze elettorali rappresentano una sfida logistica ancor più grande fuori dalla capitale, vista in particolare la necessità di trasportare i materiali elettorali, con la scorta dei caschi blu, in regioni che sono spesso difficilmente accessibili e infestate dal banditismo.

A Bangui, nonostante la relativa calma successiva alla visita di papa Francesco a fine novembre, le forze internazionali (l’Onu, con circa undicimila uomini, e la Francia, con novecento) restano sul chi vive. “Qui tutto può infiammarsi molto velocemente”, spiega una fonte delle forze di sicurezza. Tanto più che “un certo numero di persone approfitta del caos attuale e ha molto da guadagnare dal precipitare della situazione”.

Molti capi anti-balaka ed ex ribelli Séléka, il movimento a maggioranza musulmana che nel marzo del 2013 ha deposto il presidente François Bozizé, per poi essere allontanato dal potere nel 2014, sono accusati di aver stretto un’alleanza al fine di far tornare la violenza a Bangui negli ultimi mesi, dopo aver commesso numerosi abusi nei confronti della popolazione.

“Non ci sono le condizioni necessarie a organizzare delle elezioni. Prima di tutto c’interessa la sicurezza”, assicura all’Afp Maxime Mokom, esponente degli anti-balaka a Bangui, pur chiarendo che se le elezioni saranno ulteriormente rinviate, gli anti-balaka “non riconosceranno più le autorità di transizione” guidate dalla presidente Catherine Samba Panza.

Stanca dell’interminabile telenovela centroafricana, mentre il piccolo paese continua a sopravvivere grazie agli aiuti esterni, la comunità internazionale, Francia in testa, spinge alle elezioni, considerandole una tappa necessaria per uscire dalla crisi.

“La situazione è lungi dall’essere perfetta, ma bisogna andare avanti o i donatori si stancheranno”, afferma una fonte ben informata, secondo la quale il paese da febbraio non sarà più in grado di pagare i suoi funzionari.

“Sono le elezioni dell’ultima possibilità”, ammonisce l’analista Thierry Vircoulon dell’International crisis group (Icg), anche se “ci sono tutte le condizioni negative in grado di causare delle elezioni dell’esito contestato”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it