15 febbraio 2016 16:05

Cenotafio è una parola strana e difficile da ricordare, una parola che nella mia memoria è entrata per sempre una sera di luglio del 2011, davanti a una croce montata su un sostegno di cemento circondato da piante ornamentali. Era un monumento dedicato a Edgar Guzmán López, assassinato in quel luogo il 30 aprile 2008. Edgar era il figlio dell’onnipotente Joaquín “El Chapo” Guzmán.

Con una troupe dell’Afp eravamo andati a Culiacán per realizzare una serie di reportage, apparentemente senza rischi, sulla cosiddetta narcocultura. La gente ci diceva che negli ultimi tempi si erano moltiplicati i cenotafi. “Ceno-che?”, rispondevamo senza fare molta attenzione alla parola.

Le strade di Culiacán, capitale dello stato di Sinaloa, sono piene di questi piccoli santuari collocati nel punto esatto in cui una persona è morta. Qui il narcotraffico è onnipresente, tanto da influenzare la moda, la musica e perfino l’architettura urbana. I cenotafi, in maggioranza dedicati a giovani assassinati, sono addobbati per Natale con luci colorate, a novembre con motivi legati ad Halloween e a febbraio con piccoli cuori.

La morte del figlio di El Chapo ha scatenato una guerra sanguinaria, e il cenotafio si trova nel parcheggio di un centro commerciale in una zona ricca di Culiacán. Quando siamo arrivati non c’era nemmeno un’automobile vicina al monumento. Solo un uomo che passeggiava con un cappello e un cellulare all’orecchio. Appena ci ha visto ha smesso di parlare. Era un informatore dei narcos, li chiamano “falchi”.

Le spie del narcotraffico

Il fotografo dell’Afp Yuri Cortez e un operatore avevano appena cominciato a piazzare i loro obiettivi quando un furgone color sabbia si è avvicinato rapidamente a noi. Il finestrino oscurato del conducente si è abbassato e dentro abbiamo visto uomini armati che ci guardavano con disgusto. “Che cosa state facendo?”, hanno chiesto. “Stiamo preparando un reportage sui cenotafi”, ha risposto l’operatore fissando per sempre quella maledetta parola nella nostra memoria. Gli uomini a bordo del furgone ci hanno cacciato dal parcheggio a forza di grida e minacce. Siamo saliti in auto e usciti dal centro commerciale. Pochi isolati dopo abbiamo dovuto accostare e permettere a uno di noi di vomitare.

Soldati messicani bruciano piante di marijuana a Culiacán, il 30 gennaio 2012. (Alfredo Estrella, Afp)

Nonostante lo spavento, questo è uno dei modi meno traumatici per avvicinarsi alla vita dei cartelli messicani, dato che i loro leader sono solitamente inaccessibili. Le interviste che i grandi capi hanno concesso negli ultimi dieci anni, ovvero dall’inizio dell’ultima guerra della droga, si contano sulle dita di una mano. Le più controverse sono quelle nate dagli incontri tra l’attore Sean Penn e Guzmán Loera nell’ottobre 2015 e quella tra il noto giornalista messicano Julio Scherer e Vicente “Mayo” Zambada, socio e complice di El Chapo, nel primo trimestre del 2010.

Queste interviste hanno alimentato una polemica tra i giornalisti messicani sul fatto che Penn non è un giornalista, sulla presunta compiacenza delle domande, sull’opportunità di considerarle interviste. Quel che è certo che in entrambi i casi i capi hanno fatto arrivare gli intervistatori nei loro nascondigli, non hanno accettato di far registrare le conversazioni e hanno scattato foto con gli intervistatori perché fossero rese pubbliche.

La prima pagina del quotidiano messicano La Jornada con la foto di El Chapo insieme all’attore Sean Penn, il 10 gennaio 2016. (Alfredo Estrella, Afp)

Tuttavia, i due articoli, pubblicati da Proceso e da Rolling Stone, ci hanno offerto un racconto più intimo di questi personaggi misteriosi, offrendo dettagli che hanno sollevano l’interesse anche dei più scettici.

La cattura di El Chapo, lo scorso 8 gennaio nella città di Los Mochis, ha permesso a molti giornalisti di conoscere l’ultimo nascondiglio dell’ex leader del cartello di Sinaloa (fino a ieri il narcotrafficante più ricercato al mondo), il canale sotterraneo attraverso il quale ha tentato la fuga e le tracce dell’irruzione armata dell’esercito messicano nella casa dove si nascondeva. Le ore di attesa prima che le autorità autorizzassero la visita, la pressione per scrivere tutto in fretta prima di uscire e precipitarsi in autostrada verso Città del Messico, la fame e la fatica sono stati il prezzo da pagare per raccontare i luoghi in cui il capo ha vissuto.

Lo stesso è successo nel luglio del 2015, dopo la fuga spettacolare di El Chapo attraverso un tunnel di un chilometro e mezzo. In quei giorni la preoccupazione principale dei reporter era arrivare prima possibile sul posto per riuscire a vedere il tunnel; fare parte del gruppo ristretto di giornalisti a cui era permesso entrare nei corridoi labirintici e gelidi del carcere di massima sicurezza da cui era scappato El Chapo; entrare nella cella in cui aveva vissuto 17 mesi prima di fuggire; vedere con i propri occhi il buco nel pavimento da cui è sparito. Percorrere in silenzio l’angosciante corridoio 2 dell’area per i trattamenti speciali dove sono chiusi in celle singole pericolosi narcotrafficanti, pedofili e sequestratori. Ascoltare le loro battute, osservare i loro occhi arrossati, venati di follia.

La cella in cui era detenuto El Chapo nel carcere di Almoloya, il 15 luglio 2015. (Yuri Cortez, Afp)

Questi incarichi non smetteranno mai di essere interessanti, ma i veri rischi si corrono seguendo le scie di dolore che questi uomini lasciano sul loro cammino.

Un’intervista con i capi del narcotraffico è sicuramente rischiosa, ma non è comparabile con i pericoli affrontati dai giornalisti che vivono nelle zone dove operano i cartelli e dove alcuni reporter spesso sono stati uccisi.

Scena dantesca

Nel 2011 ero stata inviata insieme al fotografo dell’Afp Ronaldo Schemidt nel Durango, uno stato del nord del Messico conosciuto per essere la terra di Pancho Villa. I quei giorni erano stati ritrovati circa 300 corpi in fosse comuni clandestine in piena città. Nessuno voleva parlarne. Quando ci avvicinavamo, le persone smettevano di parlare e ci chiudevano la porta in faccia. Un giorno ci siamo ritrovati davanti a una scena dantesca.

In un piccolo parcheggio della procura c’erano tre rimorchi con i motori accesi, pieni di resti umani avvolti in lenzuola bianche e macchiate di sangue. Due esperti lavoravano sui cadaveri deposti su delle barelle davanti al portellone aperto dei rimorchi. Per terra c’erano altri corpi. Tutto alla luce del sole. I morti erano così tanti che non potevano essere trasferiti in un obitorio. La polizia scientifica provava a conservarli nei congelatori dei rimorchi.

Mi era arrivata una zaffata di aria putrida, e mi ero allontanata per combattere la nausea. Ronaldo e un altro fotografo stavano scattando quando dal palazzo della procura uscì un plotone di agenti. Un giornalista locale che si trovava insieme a noi si mise a correre, e noi dietro a lui. Alle autorità, che da queste parti sono solitamente colluse con i cartelli, non era piaciuto che avessimo messo il naso dove nessuno aveva osato farlo. Fino a quel momento non si sapeva dove fossero i cadaveri ritrovati nelle fosse comuni.

Un camion che trasporta cadaveri ritrovati in una fosse comune, a Durango, il 16 maggio 2011. (Ronaldo Schemidt, Afp)

Quello stesso giorno ci è arrivata una minaccia velata in cui si diceva che avevamo violato il segreto istruttorio. Se ci fossimo trovati in un luogo dove la giustizia funziona normalmente non ci saremmo preoccupati più di tanto. Ma nello stato di Durango, dove i narcos si muovono in furgoni identici a quelli degli agenti investigativi, era impossibile capire chi ci stesse seguendo. Intorno alle aree dove si trovavano le fosse comuni c’erano “falchi” da tutte le parti. Ricordo che abbiamo dormito con un’occhio aperto fino a quando non siamo andati via.

Di tutti gli articoli che ho scritto sulla violenza del crimine organizzato, i più importanti sono quelli che raccontano la tragedia delle vittime

In Messico, i giornalisti che vivono nei luoghi più “caldi” non corrono tanto il rischio di essere feriti durante uno scontro armato, quanto di essere prelevati all’improvviso da uomini del cartello a bordo di furgoni. A volte si sono presentati nelle redazioni o a casa, li hanno caricatia e se li sono portati via. Pochi sono tornati indietro. Alcuni sono stati trovati morti e di molti non s’è saputo più nulla.

Quando nell’ottobre del 2014 siamo arrivati a Iguala, pochi giorni dopo la sparizione dei 43 studenti di Ayotzinapa, i falchi ci tenevano d’occhio fin dentro l’albergo in cui alloggiavamo. Ci seguivano, ci registravano con cellulari e telecamere. Un giorno siamo andati a dormire dopo aver letto su Twitter minacce contro i giornalisti stranieri e l’indomani ci siamo svegliati con la notizia falsa che avevano decapitato un fotografo. Sapevamo che era una manovra di intimidazione, ma non per questo avevamo meno paura.

Un giorno camminavamo in campagna sotto un sole cocente. Avevamo aggirato i picchetti di polizia che impedivano l’accesso alla zone dove i periti e i cani addestrati cercavano gli studenti dopo la soffiata che erano stati sepolti in fosse clandestine. Improvvisamente ci siamo sdraiati per terra per evitare di essere visti da alcuni uomini che passavano da lì. Quelli si sono avvicinati per controllare, pronti a sparare. Ma non ci hanno visti e sono andati via.

Giornalisti convocati e puniti

“Vale la pena trovarsi in queste situazioni?”, mi chiedo in momenti del genere. Avevamo documentato giorno per giorno la ricerca dei genitori disperati. Ogni notte andavo a dormire distrutta fisicamente ed emotivamente.

Ma credo che di tutti gli articoli che ho scritto a proposito della violenza del crimine organizzato, i più importanti sono quelli che raccontano la tragedia delle vittime. Storie sepolte in fosse clandestine o avvolte in sacchi di plastica pieni di corpi martoriati, a volte corpi di giornalisti.

Una veglia a Città del Messico per ricordare i giornalisti uccisi, il 5 maggio 2012. (Yuri Cortez, Afp)

Nel 2012 ero stata inviata a Veracruz. Tre fotografi e una dipendente amministrativa di un giornale erano spariti e poi ritrovai trovati morti in un canale il giorno dopo.

I colleghi, che conoscevano bene i fotografi, erano letteralmente terrorizzati. In quel periodo due cartelli rivali si stavano contendendo il controllo della zona. “Noi giornalisti siamo rimasti intrappolati nello scontro tra i due gruppi”, mi aveva spiegato un reporter che stava seriamente pensando di cambiare mestiere.

Avevano tutti i nervi a fior di pelle. “Ieri non sono riuscito a dormire”, mi aveva confessato uno di loro. Un altro mi aveva raccontato che alla redazione del suo giornale lo avevano avvertito di non partecipare alla veglia e al funerale dei colleghi.

Anziché esprimere solidarietà, i vertici dei giornali volevano prendere le distanze dai fotografi e dalla dipendente. Il giornale AZ, per il quale uno dei fotografi aveva lavorato fino a pochi mesi prima, aveva pubblicato la lettera di licenziamento del fotografo per prendere le distanze, il giorno stesso del funerale.

Un fotoreporter di cronaca nera, categoria tra le più vulnerabili alle vendette dei criminali, mi aveva raccontato che i membri degli Zetas lo “convocavano” per punirlo quando qualcosa non gli piaceva. Gli ho chiesto in cosa consistevano queste punizioni. “Ti torturano davanti agli altri”. Lo colpivano con un’asse sulle natiche fino a farlo sanguinare. Un castigo esemplare.

In quel periodo era convinto che le cose si fossero calmate, perché non lo “convocavano” da mesi.

All’indomani del ritrovamento dei cadaveri sono andata insieme a tre colleghi a casa di Gabriel Huge e di suo nipote Guillermo Luna, due delle persone assassinate. Era una casa modesta. Le bare erano collocate in una piccola sala dove il caldo era soffocante. Appena entrati, i miei tre accompagnatori sono scoppiati a piangere, singhiozzando senza sosta. Credo fosse un modo per scaricare la tensione degli ultimi giorni.

Lì ho scoperto che Gabriel e suo nipote, un giovane fotografo di 22 anni, erano stati “convocati”. Prima di andare all’appuntamento fatale Huge aveva lasciato a un parente le chiavi della sua motocicletta e gli aveva chiesto di prendersi cura di sua figlia nel caso non facesse ritorno. A sua sorella aveva lasciato la macchina fotografica e un saluto d’addio, mi ha confessato la donna durante la veglia. Aveva perso un fratello e un figlio.

Quel giorno Guillermo aveva scattato le solite foto per la sua copertura abituale dei fatti di cronaca. Prima di andarsene aveva tirato fuori la scheda di memoria dalla macchina fotografica e l’aveva data a un collega dicendogli che aveva una commissione da sbrigare e chiedendogli di portarla lui al portale per cui lavorava.

Nessuno dei due è mai tornato alla redazione. I corpi sono stati ritrovati il 3 maggio, giornata internazionale per la libertà di stampa.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato sul blog Focus dell’Agence France-Presse. Nel blog, giornalisti e fotoreporter raccontano il loro lavoro.

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