27 aprile 2017 13:45

Quando i dipendenti dell’Alitalia hanno votato, il 25 aprile, per approvare le riduzioni salariali e gli esuberi necessari a salvare la compagnia aerea in difficoltà, la maggioranza ha respinto la proposta. Da un certo punto di vista è difficile biasimarli. Dopo tutto, in passato hanno potuto affidarsi all’intervento del governo italiano che ha sempre salvato la compagnia di bandiera del paese.

Ma stavolta le cose potrebbero andare diversamente. L’Alitalia ha perso miliardi di euro nell’ultimo decennio. Il vettore aveva riposto le sue speranze su un piano di ricapitalizzazione di due miliardi di euro. Ma questo dipendeva dal fatto che i lavoratori accettassero i tagli negoziati dal governo e raccomandati dai sindacati. Ora che i lavoratori hanno votato no, quell’offerta è stata ritirata.

L’Alitalia si è già trovata in questa posizione. Nel 2008 era finita in bancarotta dopo il blocco di un piano di vendita. Nel 2014, con l’azienda nuovamente sull’orlo del fallimento, il governo aveva contribuito a negoziare un accordo con la Etihad, il grande vettore mediorientale, che ha rilevato il 49 per cento delle quote. Il progetto di portare l’Alitalia in attivo entro il 2017, tuttavia, si è dimostrato ottimistico.

Esigue possibilità di salvataggio
Secondo Bloomberg la quota di mercato italiano del vettore è scesa al 18 per cento nel 2015 (dal 23 per cento del 2008), e il numero di passeggeri è calato in un decennio da 30 a 23 milioni. Visti i suoi costi elevati, l’azienda ha faticato a competere con compagnie a basso costo sulle tratte a breve percorrenza.

Oggi è la compagnia irlandese Ryanair ad avere la più ampia fetta di mercato nel paese. Nei pochi voli a lunga percorrenza rimasti, in particolare verso gli Stati Uniti, l’azienda deve competere con la Emirates, che imbarca i suoi passeggeri a Milano, dove fa scalo la sua tratta Dubai-New York, e i partner dell’Alitalia nell’alleanza SkyTeam, Air France/Klm e Delta.

Stavolta le possibilità di un salvataggio appaiono esigue. Il governo italiano ha dichiarato che non contempla una nazionalizzazione dell’azienda, il che rende probabile il fallimento. Questo non significa necessariamente che la compagnia aerea scomparirà.

In bilico ci sono anche quasi 12mila posti di lavoro. Dunque la possibilità di un salvataggio con denaro pubblico non è del tutto esclusa

Ma se l’azienda eviterà la liquidazione, sarà compito di un amministratore vendere molti dei suoi beni. Da tali operazioni uscirebbe un vettore fortemente ridimensionato. Luca Cordero Di Montezemolo, il presidente dell’azienda, ha dichiarato che procederà presto alla nomina di un amministratore.

Il fallimento della compagnia aerea sarebbe un grosso colpo per l’orgoglio nazionale. L’azienda ha volato per la prima volta nel 1947 ed è la compagnia d’elezione dei papi: Benedetto XVI le ha rivolto alcune preghiere in occasione del fallimento del 2008. In bilico ci sono anche quasi 12mila posti di lavoro. Per questo la possibilità di un salvataggio finanziato con denaro pubblico non è totalmente esclusa.

Potrebbe quindi toccare al governo fare la prima mossa, come è già accaduto in passato. Il consiglio dei ministri ha già accettato di concedere un prestito ponte di circa trecento-quattrocento milioni di euro, per mantenere attiva l’azienda in caso si riuscisse a trovare un compratore (anche se viene da chiedersi perché una qualsiasi azienda dovrebbe volerla acquistare). Ma, avendo già speso circa sette miliardi di euro dagli anni settanta per evitare il crac dell’azienda, sembra che la pazienza sia finita. Forse è venuto il momento di parcheggiare l’Alitalia in un hangar una volta per tutte.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale britannico The Economist.

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