16 ottobre 2015 18:26

Vicino al giacimento petrolifero di Al Omar, nella Siria orientale, mentre in cielo sfrecciano gli aerei da combattimento, c’è una fila di camion di sei chilometri. Alcuni autisti devono aspettare un mese prima di poter fare il pieno di greggio.

Per alleviare la loro attesa sono sorti come funghi chioschi che vendono falafel e tè. A volte gli autisti lasciano i mezzi incustoditi per settimane prima che arrivi il loro turno.

Questa è la terra del gruppo Stato islamico, l’organizzazione jihadista che controlla ampie zone della Siria e dell’Iraq. Fermare il commercio del petrolio è uno degli obiettivi principali della coalizione internazionale che la combatte. Ma per ora quel commercio prosegue indisturbato. Il petrolio è l’oro nero che finanzia lo Stato islamico, alimenta la sua macchina da guerra, gli fornisce elettricità e gli permette di fare leva sui vicini.

A più di un anno da quando il presidente americano Barack Obama ha creato una coalizione internazionale per combattere lo Stato islamico, il traffico intorno ad Al Omar e ad almeno altri otto giacimenti in Iraq e in Siria è diventato il simbolo del dilemma principale della missione: come abbattere il “califfato” senza destabilizzare la vita dei circa dieci milioni di civili che vivono nelle zone sotto il suo controllo e senza mettere in difficoltà gli alleati occidentali.

Il gruppo Stato islamico si finanzia grazie a una grande organizzazione molto simile a un’azienda petrolifera di stato

La resistenza dei jihadisti e la debolezza della campagna guidata dagli Stati Uniti, hanno offerto alla Russia il pretesto per intervenire militarmente in Siria. Ma nonostante tutti questi sforzi, da decine di interviste con commercianti siriani, tecnici, funzionari dei servizi segreti occidentali ed esperti di petrolio è emerso che il gruppo si finanzia grazie a una grande organizzazione molto simile a un’azienda petrolifera di stato, che continua a crescere e a specializzarsi nonostante i tentativi dell’occidente di distruggerla. Gestita con grande precisione, la società petrolifera dello Stato islamico assume personale esperto, e i migliori ingegneri e manager che riesce a reclutare.

Secondo le stime dei commercianti locali e dei tecnici, la produzione di greggio nei territori controllati dallo Stato islamico va dai 34mila ai 40mila barili al giorno. Il petrolio viene venduto direttamente al pozzo a un prezzo che va dai 20 ai 45 dollari al barile. Questo significa che i guerriglieri intascano in media un milione e mezzo di dollari al giorno. “È una situazione che fa ridere e piangere al tempo stesso”, dice un comandante dei ribelli siriani di Aleppo, che compra il diesel ai pozzi dello Stato islamico mentre i suoi uomini sono in prima linea a combatterlo. “Non abbiamo altra scelta, la nostra è una rivoluzione povera. Qualcun altro si offre di venderci il petrolio?”.

Il greggio come arma strategica

La strategia petrolifera dello Stato islamico è cambiata gradulamente. Fin da quando è entrato in scena in Siria nel 2013, e molto prima di raggiungere Mosul in Iraq, il gruppo ha sempre considerato il petrolio il mezzo principale per realizzare il suo obiettivo di creare un vero e proprio stato. Il suo consiglio, o shura, ha stabilito che è fondamentale per la sopravvivenza degli insorti ma, soprattutto, per finanziare il loro progetto di istituire un califfato. La maggior parte del greggio controllato dal gruppo Stato islamico si trova nella Siria orientale, dove si è creato una base d’appoggio nel 2013, subito dopo essersi ritirato dal nordovest, una zona di importanza strategica ma priva di petrolio. Queste teste di ponte sono state poi usate per consolidare il controllo su tutta la Siria orientale dopo la caduta di Mosul nel 2014.

Mentre penetravano nell’Iraq settentrionale fino a Mosul, i jihadisti hanno conquistato anche i giacimenti petroliferi di Ajil e Allas, nella provincia nordorientale di Kirkuk. Il giorno stesso, dicono gli abitanti della zona, hanno mandato dei tecnici sul posto per mandare avanti la produzione e far arrivare il petrolio sul mercato.

“Erano già pronti, avevano le persone a cui affidare l’aspetto economico e i tecnici per gestire lo stoccaggio”, dice uno sceicco della cittadina di Hawija, vicino a Kirkuk. “Hanno portato centinaia di cisterne da Kirkuk e Mosul e hanno cominciato a estrarre il petrolio e a esportarlo”. Riempivano in media 150 cisterne al giorno, ognuna delle quali conteneva petrolio per circa 10mila dollari. Ad aprile l’esercito iracheno ha riconquistato i giacimenti, ma nei dieci mesi in cui ha controllato la zona si calcola che lo Stato islamico abbia guadagnato circa 450 milioni di dollari. Mentre Al Qaeda dipendeva dalle donazioni di ricchi sponsor stranieri, lo Stato islamico deve la sua forza economica al monopolio di un bene essenziale molto richiesto in tutte le regioni che controlla. Anche se non riuscisse a esportarlo, potrebbe tranquillamente arricchirsi con il mercato siriano e quello iracheno.

In realtà, il diesel e la benzina prodotti nelle regioni controllate dallo Stato islamico non sono usati solo lì, ma anche in zone che tecnicamente sarebbero in guerra con l’organizzazione, come il nord della Siria in mano ai ribelli, che dipende dal petrolio dei jihadisti per sopravvivere. Gli ospedali, i negozi, i trattori e le macchine usate per tirare fuori le vittime dalle macerie funzionano grazie a generatori alimentati dal petrolio dei jihadisti. “In qualsiasi momento possono tagliarci i rifornimenti. Lo Stato islamico sa bene che senza diesel non possiamo vivere”, dice un mercante di petrolio che ogni giorno parte da Aleppo per comprarlo.

Una società petrolifera nazionale

Il gruppo jihadista vuole trasmettere l’immagine di uno stato in formazione e sta cercando di gestire la sua industria petrolifera come una società petrolifera nazionale. Secondo alcuni siriani che i jihadisti hanno cercato di assumere, il gruppo è sempre a caccia di tecnici, offre lauti stipendi a quelli che hanno esperienza e li invita a presentare domanda al suo reparto risorse umane. Una commissione di specialisti gira per i giacimenti per controllare, verifica la produzione e chiede ai dipendenti come stanno andando le cose.

Lo Stato islamico attribuisce anche ai suoi uomini che hanno lavorato in compagnie petrolifere in Arabia Saudita o in altri paesi del Medio Oriente il titolo di “emiri” e gli affida gli impianti più importanti, dicono i clienti e gli ingegneri che hanno lavorato nei suoi giacimenti. Alcuni tecnici sono stati esplicitamente corteggiati dai reclutatori dell’Isis. Rami (ovviamente non è il suo vero nome) che prima di diventare comandante dei ribelli siriani lavorava nel settore petrolifero nella provincia di Deir Ezzor, è stato contattato da un emiro dello Stato islamico iracheno tramite Whatsapp. “Mi ha detto che potevo scegliere il posto che volevo”, ha raccontato. “E che potevo decidere io lo stipendio”. Non convinto del progetto del gruppo, alla fine Rami ha rifiutato l’offerta ed è fuggito in Turchia. Lo Stato islamico cerca reclute anche tra i suoi sostenitori all’estero. Nel discorso che ha fatto dopo la caduta di Mosul, il suo leader Abu Bakr al Baghdadi ha chiamato a raccolta non solo guerriglieri, ma anche tecnici, medici e altro personale specializzato.

Secondo un tecnico petrolifero di Mosul che ha chiesto di non fare il suo nome, di recente il gruppo ha nominato un ingegnere egiziano che viveva in Svezia a capo della sua raffineria di Qayyara, nel nord dell’Iraq. Il ruolo centrale del petrolio è confermato anche dall’importanza che gli viene attribuita nelle strutture di potere dell’organizzazione. La gestione dei territori controllati dall’organizzazione è fortemente decentrata. Nella maggior parte dei casi è affidata a governatori locali, walis, che li amministrano secondo le norme stabilite dalla shura centrale. Ma il petrolio, le operazioni militari e il sofisticato sistema di propaganda sono controllati a livello centrale dai suoi leader.

“La gestione del petrolio è molto ben organizzata”, dice un alto funzionario dei servizi segreti occidentali. “È controllata a livello centrale. È di diretta competenza della shura”, il “governo” del gruppo Stato islamico. Fino a poco tempo fa, l’emiro responsabile del petrolio era Abu Sayyaf, un tunisino il cui vero nome, secondo il Pentagono, era Fathi Ben Awn Ben Jildi Murad al Tunisi, e che è stato ucciso in un raid delle forze speciali statunitensi a maggio di quest’anno.

Secondo i servizi segreti europei e americani, in quell’occasione sono stati trovati molti documenti relativi alla produzione e vendita del petrolio, che hanno rivelato una gestione meticolosa, con un registro preciso dei costi e dei ricavi di tutti i pozzi. Hanno dimostrato anche che l’Isis ha un approccio pragmatico alla politica dei prezzi, e sfrutta i diversi tipi di domanda dei vari territori per ottenere il massimo profitto. I giacimenti sono controllati dall’Amniyat, la polizia segreta dello Stato islamico, per garantire che gli introiti vadano a chi di dovere, e somministrare severe punizioni in caso contrario. Le guardie pattugliano il perimetro delle stazioni di pompaggio, mentre i pozzi isolati più lontani sono circondati da muri di sabbia e chiunque voglia entrare è sottoposto a minuziosi controlli.

Secondo un commerciante di petrolio, al giacimento di al Jisbba, nella provincia di Hassakeh della Siria nordorientale, che produce dai 2.500 ai tremila barili al giorno, “ogni giorno vanno a rifornirsi circa 3.040 autocisterne della capienza di 75 barili ciascuna”.

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La rete di distribuzione

Ma il giacimento più importante è quello di Al Omar. Secondo una persona che compra regolarmente il petrolio lì, il sistema è lento, e quindi si formano code di chilometri, ma ormai tutti ci si sono abituati. Gli autisti mostrano un documento con il loro numero di targa e la capacità della cisterna ai funzionari dello Stato islamico, che li inseriscono in un database e gli assegnano un numero.

La maggior parte di loro poi torna al suo villaggio e fa avanti e indietro ogni due o tre giorni per controllare il suo veicolo. Alcuni montano una tenda per rimanere vicino al camion in attesa del proprio turno. Una volta caricato, il petrolio viene portato in una raffineria locale o venduto a un prezzo più alto a mediatori che hanno camion più piccoli e lo trasportano nelle città più a ovest come Aleppo e Idlib.

Non è detto che le cose vadano sempre avanti così. Le bombe della coalizione, l’intervento russo e il calo del prezzo del petrolio potrebbero ridurre gli introiti dello Stato islamico. Ma finora la minaccia principale è stato il lento prosciugamento dei vecchi giacimenti siriani, dato che il gruppo non ha la tecnologia di cui dispongono le grandi società straniere per contrastare il calo della produzione. Inoltre, avendo bisogno del petrolio per le sue operazioni militari, lo Stato islamico può venderne sempre di meno. Per il momento, nei territori che occupano, i jihadisti controllano completamente il mercato e la domanda è ancora forte. “Tutti hanno bisogno di diesel: per l’acqua, per l’agricoltura, per gli ospedali e gli uffici. Senza diesel non potremmo vivere”, dice un uomo d’affari della zona di Aleppo. “Lo Stato islamico sa bene che quella è la sua carta vincente”.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sul Financial Times. Clicca qui per vedere l’originale.

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