21 giugno 2016 14:24

Certamente vi sarà capitato di assistere a un incidente automobilistico, ma avete mai osservato la folla?

Ci sono quelli che aiutano, i buoni samaritani che si precipitano a dare una mano in ogni incidente. Ci sono quelli che se ne stanno lì a guardare e a dispiacersi per le vittime. E poi ci sono anche quelli che, veri prodotti di questa epoca, non si vergognano a fare un video e a condividerlo con qualche commento stupido tipo: “Oddio, farò tardi a lavoro perché queste persone hanno scelto di morire nel posto sbagliato nel momento sbagliato e mi hanno bloccato la strada”.

Ma il peggio del peggio sono gli ipocriti egocentrici che misurano l’entità di ogni disastro in base all’impatto che avrà sulle loro vite e che osservano le vittime per vedere se corrispondono al loro profilo di vittime di cui preoccuparsi: ci sono animali feriti nell’incidente? Niente animali, ok, allora non m’importa. Ci sono vittime abbastanza bianche da meritare compassione? No, ok, allora non è un mio problema, in un certo senso è colpa loro, è sempre colpa loro, perché sono ignoranti, hanno una religione diversa e appartengono a un’etnia diversa.

C’è però una cosa che tutti quelli che osservano un incidente hanno in comune, e cioè un senso di sollievo: non sono io, non è la mia gente, non sta succedendo a me, queste cose succedono sempre a qualcun altro.

Forse penserete che il fatto di essere libico mi garantisca un posto in prima fila per assistere a eventi drammatici. Sono ormai un esperto di morte, ma mi sento ancora confuso e senza punti di riferimento ogni volta che mi ci imbatto.

Ditemi: perché i musulmani combattono contro l’Is e perché l’Is uccide i musulmani?

Continuo a tenere il conto delle persone che muoiono nella battaglia contro il gruppo Stato islamico (Is) a Sirte: fino a oggi sono 177. Ho scritto i loro nomi fino al 137°, poi non sono più riuscito a farlo.

Il mio amico Husin era il numero 55. Si era sposato solo tre mesi prima di morire. L’ultima volta che gli ho scattato una foto è stato durante una festa nel 2013, rideva e si metteva in posa davanti all’obiettivo. L’ultima volta che l’ho visto dal vivo risale a un anno fa. Non ci ho passato molto tempo insieme e lo rimpiango, così come rimpiango di non essere stato al suo matrimonio. So che in ospedale ci hanno messo un giorno interno per identificare i suoi resti. So molte cose, ma non abbastanza.

Come si può scrivere di una persona intera in poche frasi? Come posso ridurre tutto ciò che era a poche righe? Come ci riescono gli altri? Come trovano quelle frasi scolpite nella roccia? E come diavolo facciamo a sommarle facendole diventare numeri? Solo numeri, numeri quotidiani? Questi numeri non vi diranno come rideva; il suo modo di ridere mi ha sempre fatto ridere tantissimo, più delle sue battute. Come potrà questo numero anche solo cominciare a spiegarvi che grande uomo fosse?

Vorrei aver conosciuto tutti i 177 libici morti combattendo contro l’Is. Conosco solo i loro nomi, so che erano libici, che avevano speranze e sogni e sì, erano musulmani. Perciò ditemi ancora: perché i musulmani combattono contro l’Is e perché l’Is uccide i musulmani?

Il museo dei martiri di Misurata, in Libia. (Khalifa Abo Khraisse)

Questa settimana 12 uomini sono stati giustiziati in stile mafioso e i loro cadaveri sono stati scaricati a Tripoli. Erano stati rilasciati dal carcere di Al Ruwaimi, dove erano rinchiusi dal 2011 con varie accuse, poiché avevano lavorato con il passato regime. L’inviato delle Nazioni Unite Martin Kobler ha diffuso un comunicato in cui chiedeva alle autorità di indagare sul massacro e il governo sostenuto dalle Nazioni Unite ne ha a sua volta diffuso un altro con la stessa richiesta. Perciò adesso “le indagini sono in corso”. No comment… Ma citerò quello che ha scritto Layal commemorando suo zio, una delle vittime:

I miei zii Rahie Saneed e Ahmad Saneed lavoravano entrambi nei comitati rivoluzionari. Non hanno ucciso né torturato nessuno e non hanno rubato. Dio mi è testimone. Abbiamo atteso per cinque lunghi anni il giorno della loro liberazione. Quando finalmente quel giorno è arrivato, eravamo felici ed entusiasti che quest’anno avrebbero festeggiato l’Eid con noi. Eravamo felici e poi è arrivata la brutta notizia: ci hanno detto che erano stati assassinati, che tutti i prigionieri liberati erano stati uccisi. Non ci abbiamo creduto, mio padre è andato in giro a chiedere e a indagare, ha cercato negli ospedali, finché non gli hanno detto che ce n’erano tre al pronto soccorso dell’ospedale Shara Al Zawiyah. Si è precipitato, ma non erano loro. Intanto non sapevamo ancora nulla, poi abbiamo ricevuto una telefonata: ci hanno detto che uno era morto e gli altri erano ancora vivi. Chi? Come? Perché? Non lo sappiamo, mio zio Rabbie è morto, l’hanno trovato in una strada di Tajura e l’hanno portato in ospedale. Mio padre non è riuscito a riconoscere suo fratello, ha potuto confermarlo solo dal suo anello, lo avevano picchiato e gli avevano bruciato il volto, gli avevano sparato sette volte. Posso chiedere vendetta solo a Dio. Fino a quando dovremo vivere così? Fino a quando dovremo restare in silenzio mentre la gente è indifferente all’ingiustizia, uccide e tortura così facilmente, fino a quando?

Quella stessa settimana un caro amico di mio padre è morto di infarto. Era l’ultimo dei suoi amici più cari, gli voleva molto bene, era come uno zio per me. L’ultima volta che l’ho visto risale a pochi mesi fa. Sono felice di averlo abbracciato e di aver avuto la possibilità di esprimergli tutta la mia gratitudine per essere parte della mia vita. Me lo ricordo sempre accanto me: quando mio padre ha avuto un terribile incidente e ci ha messo tanto tempo a guarire, ai matrimoni delle mie due sorelle e al funerale dei miei zii e di tutti i miei cugini.

Era una brava persona, un uomo per bene che aveva prestato servizio nell’esercito ed era andato in pensione in modo limpido e con orgoglio. Ma sapete cos’è che mi ha fatto davvero piangere? Mi sentivo così triste perché in un modo o nell’altro ero sollevato all’idea che fosse morto di infarto e non assassinato o ucciso da proiettili vaganti. Quel pensiero mi ha spezzato il cuore proprio quando pensavo che non potesse essere più spezzato di così. Quello, e il fatto che non si è mai davvero cresciuti, in un certo senso si è ancora bambini, fino al giorno in cui si vede piangere il proprio padre: in quel momento si rompe qualcosa dentro e non si è più gli stessi.

Come funziona il lutto

Sono stati rari i momenti in cui mio padre si è aperto e ha mostrato le sue emozioni, e non dimenticherò mai quando mi ha detto: “Era l’ultimo amico che mi restava in vita, adesso sono solo”. Volevo dire a mio padre che è stato fortunato, perché avevano trascorso insieme tutta una vita, perché erano riusciti a vedere i rispettivi figli. Volevo dirli che avrei scambiato tutta questa rivoluzione, l’avrei restituita e sarei tornato alla situazione di prima se questo mi avesse restituito anche un solo amico, anche solo per un altro giorno.

Non so davvero come funzioni il lutto: pensi di essere forte abbastanza, l’hai già visto, ti aspetti che le cose che succedono a te e intorno a te ti cambieranno in un modo o nell’altro, pensi che tutto questo renderà immune il tuo cuore. Be’, in effetti mi hanno cambiato: mi hanno reso più vulnerabile.

Nella stessa settimana, pochi giorni dopo, ho visto le foto dei bambini morti a Derna per i bombardamenti aerei ordinati dal generale Haftar e ho letto quello che ha detto il ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni: “In Libia si muovono i primi passi nella direzione da noi sperata, passi misurati, ma per questo paese non si può pensare a una soluzione miracolosa. È molto importante che le forze filogovernative ottengano dei successi nella lotta contro l’Is. L’Italia ha avviato contatti con i ministeri libici dell’interno, della salute e dei trasporti. Abbiamo ancora molta strada da fare ed è molto importante trovare un accordo con il generale Haftar, che potrebbe giocare un ruolo importante insieme ad altri sul piano militare se riconoscesse l’autorità politica del governo appoggiato dall’Onu”.

No comment.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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