29 luglio 2016 12:58

È sempre stato così, non solo nella storia della Libia, ma anche in quella di tutti i paesi arabi, del Medio Oriente e del Nordafrica: chi sta al potere può essere cacciato solo con un colpo di stato militare o con la sua morte (si tratti di assassinio o di cause naturali). E tutte le volte che un tiranno sopravvive a un tentativo di colpo di stato, si serve di quest’ultimo per avere mano libera e “purificare il paese”.

Nel 1984 il complesso in cui risiedeva Gheddafi a Tripoli fu assaltato in un tentativo di colpo di stato progettato dal Fronte nazionale per la salvezza della Libia. Molti furono uccisi nel corso delle operazioni. Fu lanciata una campagna di arresti di massa.

Nel giro di un mese fu eseguita la prima condanna a morte pubblica: Al Sadek Hamed Al Shuwehdy, un ingegnere libico che la polizia segreta aveva arrestato per il suo coinvolgimento in una manifestazione di protesta contro Gheddafi. Fu impiccato nel campo di basket dell’università di Bengasi e la barbara esecuzione fu trasmessa in televisione per molti giorni. A quell’esecuzione pubblica fecero seguito altre dodici condanne a morte di uomini che erano stati rispediti nelle loro città d’origine perché fossero impiccati dalle loro tribù, in scene che ricordavano le esecuzioni della caccia alle streghe nei secoli bui. Duemila persone furono arrestate durante la campagna di purificazione. Saddam Hussein fece lo stesso in Iraq nel 1979, e oggi in Turchia Erdoğan sta riproponendo questo vecchio trucchetto.

Non puoi chiamare un diavolo per scacciarne un altro e aspettarti che se ne vada quando il patto è concluso

Da Aristotele in poi, i capipopolo sono stati definiti demagoghi. Questo termine è antico quanto quello di democrazia; entrambi sono nati nell’antica Atene. La demagogia, l’arte di manipolare le masse, ha conosciuto diverse declinazioni creative nel corso della storia: capi carismatici hanno guidato e ingannato il popolo inventando nuove parole, nuovi nemici e nuove illusioni, distorcendo e nascondendo i fatti. E se le masse non ci credevano, sarebbe stata la paura a trasformarle in credenti. Nella nostra storia moderna, la demagogia è cominciata con il movimento del nazionalismo arabo di Gamal Abdel Nasser e la sua traiettoria non è ancora finita.

È un circolo vizioso: tutto ha inizio quando i capipopolo si presentano come salvatori dall’ingiustizia, dalla povertà e dalla dittatura, e a quel punto sta al popolo creare il tiranno. Poco dopo se ne pentirà, soffrirà e sognerà segretamente un nuovo salvatore, ma ne farà ancora una volta un tiranno.

In Egitto i cittadini hanno votato per i Fratelli musulmani, però, quando hanno capito l’errore che era stato fatto, hanno accolto la salvezza ballando per strada. Poi è sopraggiunto il cavaliere con la sua armatura scintillante a bordo di un carro armato, cavalcando enormi ondate di demagogia per salvare il popolo dal mostro che si era scelto. Ma quando firmi un patto con il diavolo, c’è sempre un tranello: non puoi chiamare un diavolo per scacciarne un altro e aspettarti che quello nuovo si alzi e se ne vada quando il patto è concluso.

Di solito queste storie finiscono con la gente che si sveglia il giorno dopo con i postumi di una sbornia e scopre che il principe con cui è andata a letto non è altro che un orribile mostro. Lo ripeto ancora una volta: sembra che il nostro destino sia di scegliere tra i religiosi e i militari.

La brutta copia di Al Sisi

In Libia non l’abbiamo fatto. Abbiamo invece scelto un partito laico e civile, ma i Fratelli musulmani hanno trovato un modo per rientrare in gioco utilizzando i loro metodi abituali. Sono riusciti a stringere la presa sul congresso di Tripoli (Gnc), la prima assemblea legislativa eletta dopo la caduta di Gheddafi, e non vi ingannate, il tutto è avvenuto con il sostegno e il finanziamento di molti paesi che il Mufti dimentica di condannare. Quando il Gnc ha rifiutato di cedere il potere, estendendo il proprio mandato nel 2014, sono state organizzate manifestazioni di massa per chiederne la destituzione e, inutile a dirsi, non è servito a niente.

Il generale Khalifa Haftar ha usato la paura e l’odio per gli islamisti nel tentativo di riproporre il copione di Abdel Fattah al Sisi in Egitto, ma le cose non gli sono andate bene.

Non sono un sostenitore di Haftar ma, prima di spiegarvi il perché, ci tengo a dire che non per questo approvo uno qualsiasi degli altri attori in campo. Ricordate due cose di Haftar: in primo luogo, il suo primo nome è Khalifa (Califfo, in italiano), e io non affiderei mai la guida di un esercito a uno che si chiama Khalifa. Per amor del cielo, quale persona sana di mente lo farebbe mai?

In secondo luogo, non è altro che una versione a buon mercato in chiave libica della favola di Al Sisi. Un colpo di stato ha sequestrato l’Egitto e ha calpestato con pesanti stivali militari tutti i sogni e le speranze dei giovani egiziani.

È una regola matematica di base: “Se si sommano due numeri interi negativi, il risultato è sempre negativo”. Un negativo non può scacciare un negativo e essere obbligati a scegliere all’infinito tra barbuti e stivali, tra religiosi e militari non è esattamente il sogno di nessun essere umano.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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