31 agosto 2016 19:06

È la fine di un’era. Il buco non c’è più. Chiunque abbia frequentato la Mostra del cinema di Venezia negli ultimi sei anni saprà di cosa sto parlando: quell’enorme scavo, più grande di una piscina olimpionica, che doveva contenere il nuovo Palazzo del cinema del Lido, ma per problemi di bilancio e contenziosi legali, è rimasta (dietro una copertura di tela bucata alla sua volta) in bella mostra davanti al Casinò, sede operativa della Mostra.

Dove c’era il buco adesso è sistemato un giardino ombreggiato da aceri e pini, con al centro un cubo rosso, che sembra un po’ il monolito di 2001 sponsorizzato dalla Ferrari. È la nuova sala Giardino, una tensostruttura che ospita un cinema da 446 posti. Costato circa 500mila euro (dunque poco più di mille euro ogni paio di natiche), è il simbolo dell’Italia che sa fare, con sei anni di ritardo.

La nuova sala rossa fiammeggiante è destinata a ospitare film della nuova sezione Cinema nel Giardino, che secondo il direttore della Mostra Alberto Barbera “hanno in comune la più o meno sotterranea intenzione di rivolgersi a un pubblico il più vasto possibile, annullando o riducendo le distanze fra spettatori cinefili e quelli che cercano in primis un’occasione d’intrattenimento non banale”. Hanno anche in comune, bisogna aggiungere, il più o meno sotterraneo fatto di non essere stati scelti per il concorso.

Un ritorno all’età d’oro del musical hollywoodiano
Concorso che si aprirà in bellezza la sera del 31 agosto con un altro colpo grosso da parte di Barbera dopo i film di apertura acchiappa-Oscar Gravity (2013) e Birdman (2014): La La Land di Damien Chazelle (quello di Whiplash), già in odore di santità per l’edizione 2017 degli Academy Awards. Presentato alla stampa in mattinata, La La Land è un ritorno all’età d’oro del musical hollywoodiano, un film che nonostante le tante citazioni cinematografiche e jazzistiche che contiene non è per niente furbo o post-moderno.

Racconta in modo semplice (per dire: un solo litigio, durante una cena, riassume simbolicamente tutta una stagione di problemi e malintesi fra lui e lei) una storia d’amore tra un’aspirante attrice e un pianista jazz disgustato dal fatto che il free jazz puro e duro in cui crede è sempre più trascurato. Lei è Emma Stone, attrice jolie-laide i cui occhi espressivi sembrano grandi come la bocca, lui il bellone Ryan Gosling, nel ruolo (tagliato su misura) di un sognatore romantico e sensibile che si nasconde dietro un carapace di ironia e menefreghismo.

Il regista Damien Chazelle e l’attrice Emma Stone al festival del cinema di Venezia per la presentazione del musical “La La Land”, il 31 agosto 2016. (Alessandro Bianchi, Reuters/Contrasto)

Nonostante qualche cliché di troppo sui sogni a cui non si deve mai rinunciare, La La Land è un film che funziona soprattutto come lettera d’amore a una vita analogica. A partire dal cinema analogico (le citazioni vanno da Casablanca a Les parapluies de Cherbourg, ma c’è anche tutto un filone sulle sale cinematografiche di una volta) per arrivare alla musica analogica (divertente la sequenza in cui Gosling fa il tastierista in un triste cover band di pop anni ottanta, la copia di una copia, un labirinto di inautenticità) e l’amore analogico, quello che spinge un uomo innamorato a mettersi in macchina e percorrere centinaia di chilometri per dire una cosa importante alla sua amata.

Perfino Los Angeles qui rivela il suo lato analogico, latino, nascosto sotto la città digitale moderna (in questo, il film sembra la cugina acqua e sapone di Mullholand Drive). Giustamente, questa pellicola che si apre con le parole “Presented in Cinemascope” è stato girato, appunto, su pellicola, in 35 millimetri. Una scelta che sta diventando, purtroppo, ormai di controtendenza nel mondo del cinema, un manierismo hipster come il giradischi del personaggio di Gosling.

A Venezia ci aspettano dieci giorni di cinema fra oggi e sabato 10 settembre; speriamo che sia di una bontà analogica. Fra i titoli che aspetto con più ansia quest’anno ci sono Nocturnal animals di Tom Ford, Arrival di Denis Villeneuve, Jackie di Pablo Larrain, più due outsider: il documentario italiano sull’immortalità Spira mirabilis e il dramma cileno El Cristo ciego di Christopher Murray, che Alberto Barbera ha nominato, in un’intervista a Screen International, la potenziale grande scoperta di questa edizione: “È influenzato da Pasolini”, ha detto il direttore del festival, “ma con una meravigliosa forza espressiva tutta sua”.

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