09 febbraio 2015 15:05

Sanremo propriamente non esiste. Intendo dire che per l’amministrazione centrale, l’Istat e altri enti il nome ufficiale della città è San Remo. L’amministrazione comunale e la Rai preferiscono però la versione laica, senza r maiuscola e spazio. Quindi ogni logo del festival – annualmente rinnovato seppur con obbligatorio effetto “riflettore illumina dall’alto” per far capire subito che siamo in tv – adotterà la forma tutta attaccata, ma chi viene in treno per vedere i cantanti dovrà usare la grafia divisa quando organizza il viaggio su trenitalia.it.

Pure San Remo propriamente non esiste. Intendo dire che non c’è nessun Remo santo eponimo a fondare e proteggere la città di mare. All’origine c’è però un Romolo, eremita in montagna, e da lassù, mangiando terreno e lettere, discende San Remo sulla vicina costa. Un tempo si favoriva una derivazione del nome da Santo Eremo, l’interpretazione oggi più accreditata ricava invece San Remo da San Roemu, adattamento dialettale di Romolo. I liguri risparmiano pure sulle sillabe… sì io lo posso scrivere, è “simpatica autodenigrazione”: sono ligure, anzi sanremese.

L’esibizione di Arisa alla 64ª edizione del festival, febbraio 2014. (Simone Donati, TerraProject/Contrasto)

E da bambino i miei genitori la domenica mi portavano nella frazione di San Romolo, a venti minuti di macchina dalla città, sulle prime Alpi Marittime, dove non visitavo la grotta (pare) del santo ma scorrazzavo nel grande prato. Lì sviluppavo tutta una mia teoria sullo speciale legame tra Sanremo (come ora scriverò sempre, per fedeltà cittadina e televisiva) e Roma, ovvero sul festival, Romolo e Remo. Con qualche precoce aggiustamento da fiction storica Rai, ingentilivo i mitici guerrieri in un pacifico santo, rinnegavo il fratricidio e lasciavo vivere Remo come una sorta di amico immaginario; anzi Remo era il protettore di un luogo immaginario che ogni anno per una settimana diventava capitale televisiva e musicale, consentendo alla sorella maggiore Roma di riposare un poco e ospitandone l’apparato spettacolare in trasferta.

A proposito di bambini e fantasmi: perfino il figlio più famoso di Sanremo propriamente non esiste. Italo Calvino, infatti, non vi è nato e non vi è morto preferendo Santiago de Las Vegas (L’Avana, Cuba) nel 1923 e Siena nel 1985. Forse non vorrà dire nulla, e certo tutti i volumi di storia e cultura locale, come Italo Calvino a Sanremo di Piero Ferrua (1991), si affannano a mostrare per molte pagine quanto sia stata centrale la città nella vita e nell’opera del grande scrittore. Pur dimenticando spesso di citare o relegando volentieri in nota un romanzo breve pubblicato in rivista nel 1957 e in volume nel 1963, quel La speculazione edilizia ambientato in una Sanremo riconoscibilissima dietro i tre asterischi anonimizzanti e l’avvertenza tradizionale sull’opera di fantasia. Eccone la prima apparizione:

A ***, la città di Quinto, un tempo circondata da giardini ombrosi d’eucalipti e magnolie, […] il piccone diroccava le villette a due piani, e la scure abbatteva in uno scroscio cartaceo i ventagli delle palme Washingtonia, dal cielo dove si sarebbero affacciate le future soleggiate-tricamere-servizi.
Quando Quinto saliva alla sua villa, un tempo dominante la distesa dei tetti della città nuova e i bassi quartieri della marina e il porto, più in qua il mucchio di case muffite e lichenose della città vecchia, tra il versante della collina a ponente dove sopra gli orti s’infittiva l’oliveto, e, a levante, un reame di ville e alberghi verdi come un bosco, sotto il dosso brullo dei campi di garofani scintillanti di serre fino al Capo: ora più nulla, non vedeva che un sovrapporsi geometrico di parallelepipedi e poliedri, spigoli e lati di case, di qua e di là, tetti, finestre, muri ciechi per servitù contigue con solo i finestrini smerigliati dei gabinetti uno sopra l’altro.

La spietata speculazione edilizia anni cinquanta è la fase adolescenziale dell’ancora più feroce rapallizzazione anni settanta – termine ritornato molto in voga dopo le alluvioni, i crolli e le frane degli ultimi anni a Genova e in tutta la Liguria. Il nome localizzato e i riferimenti geografici ampi danno in fondo ragione agli asterischi di Calvino e indicano come nel cemento dissennato, se non anche nel dissesto idrogeologico, si tenga stretta tutta la regione (potremmo, infatti, facilmente andare avanti sino alla Spezia di Eugenio Montale).

Gli amministratori sanremesi non amano molto ricordare queste pagine e vicende. E hanno scelto di celebrare nel 2013 con una statua non Italo Calvino ma Mike Bongiorno, nato a New York nel 1924 e morto nella vicina Montecarlo nel 2009, presentatore di ben undici edizioni del festival. Numerosi utenti di TripAdvisor, grande social network dedicato a viaggi e turismo, hanno commentato la scultura al momento tredicesima in classifica fra le attrazioni della città, mostrando di prediligere l’arte naturalistica ed esprimendo dubbi sul posizionamento: “La statua che rende omaggio al famoso presentatore è molto somigliante, peccato sia in una posizione un po’ defilata”, “la statua è molto bella e anche da lontano si riconosce molto bene il personaggio, personalmente l’avrei posizionata nella via Matteotti anziché in un angolo”.

Questi giudizi mi paiono corretti a metà, quella sull’angolo e sull’impossibilità di confondere, perfino da lontano, Mike con Italo. Non posso però convenire sul molto bello e ritengo che la foto sotto, presa da Wikipedia, non renda pienamente giustizia alla desolazione, della collocazione ambientale e della statua.

La prima volta che l’ho vista un compassionevole rifiuto percettivo me l’ha fatta confondere, indubbia somiglianza nonostante, con il solito mimo dal vestito dorato (”oggi è più bravo però, sta proprio fermo”). Mike è infatti un bronzeo pizzardone in giacca e cravatta, con la destra tesa a fermare invano i pedoni distratti e la sinistra a mostrare la sua tavola della legge. Sopra la mitica cartellina c’è scritto l’unico comandamento che conti: Allegria.

A questo punto, con un altro slancio di ingenua razionalizzazione dopo il mimo fallito, mi è venuto da pensare: “È uno scherzo ferocissimo, l’han fatto apposta questo scempio”. E invece no, oggi a Sanremo reale o irreale poco importa, ma tutto è sempre letterale. Perché Sanremo è Sanremo, perché se gli somiglia è bella, perché cuore rima con amore. E arte con orrore, con allegria.

Ora immaginate di essere di fronte a Mike e voler fare un giro per la città: se proseguite alla vostra sinistra per quattrocento metri arrivate al Casinò (inaugurato nel 1905, sede del festival dal 1951 al 1976), se andate a destra in via Matteotti dopo cento metri incontrate il Cinema Teatro Ariston (inaugurato nel 1963, ospita il festival dal 1977, con l’eccezione del 1990). Se continuate sull’Aurelia per altri cinque chilometri e mezzo, girate a sinistra ed entrate in Valle Armea, troverete invece la leggendaria sede scelta dal comune di Sanremo e dal “patron” Adriano Aragozzini per il festival del 1990.

È ricordata ancora con terrore dai vecchi giornalisti per il disagio logistico, l’improponibile acustica, i tranquilli pipistrelli e soprattutto per la costruzione che Wikipedia, con qualche salto logico (imputabile al comune e non ai volonterosi estensori della voce), chiama nel giro di dieci parole “megastruttura”, “Palafiori”, “capannone”, “teatro”; e che era, semplicemente, un enorme mercato floricolo non ancora finito.

Per il ritorno verso il centro città da quel poco leggiadro luogo raggiungete l’amena pista ciclabile sul mare, ricavata dal tracciato della ferrovia, spostata a monte una quindicina d’anni fa. Qui la speculazione edilizia sta riprendendo terreno, anche per contromiracolo sull’acqua, con quelli che vengono chiamati, in grazioso ossimoro, “porti turistici a basso impatto ambientale”. Ma ci vorrà ancora un bel po’ per completare l’opera e oggi quella pista ha tanti angoli meravigliosi (è la prima attrazione di Sanremo secondo la saggezza della folla di TripAdvisor).

Ed eccoci di nuovo davanti a Mike: se andate dritti per via Escoffier, la strada nella foto sopra, incontrate un piccolo passaggio coperto in un grande palazzo, attraversatelo e siete in via Palazzo. Da lì una corta scalinata vi porta subito alla Pigna, la città vecchia di Sanremo, che il lettore di Calvino conosce soprattutto per Il sentiero dei nidi di ragno, romanzo scritto nel 1946 ed edito l’anno dopo.

In quello stesso 1946 il giovanissimo autore sul numero 21 del Politecnico pubblicava uno straordinario pezzo, tra commento e giornalismo d’inchiesta, dal titolo Sanremo, città dell’oro (ora nel “meridiano” dei Saggi), dove, con potente passione sociale e severa moralità resistenziale, divideva la città tra la ricchezza facile del Casinò, da poco riaperto, e la povertà ingiusta della Pigna.

Arrivano i nuovi ricchi a Sanremo, facce nuove, con nuove macchine e nuove amanti. Dove avranno guadagnato tanti soldi? Non bisogna chiederlo, basta che giochino. Si parla di sei milioni incassati nella sola notte di capodanno: cinque milioni toccherebbero al Comune: c’è la Pigna che aspetta, la Pigna sporca e oscura a pochi passi dal Casinò dove si gioca con l’oro, la Pigna sempre con le stalle e senza fogne, con in più le rovine dei bombardamenti.

Questa, tra le tante, è una delle contraddizioni più stridenti del mondo in cui viviamo. I poveri che attendono una perequazione sociale dalla nausea di milioni che spinge i troppo ricchi a giocarseli alla roulette. Ma forse con quei milioni si potrà demolire la ‘Pigna’, o lasciarla agli amatori di vestigia medioevali, e costruire case al sole, case al sole che c’è anche per i poveri. Tutto questo per ora.

Se ci atteniamo ancora una volta alla lettera dobbiamo riconoscere che nuove case al sole sono state costruite in grande abbondanza, basta ignorare la triste ironia per il futuro autore di La speculazione edilizia che auspicava un regolato e armonico piano di edilizia sociale.

Ma ritorniamo un poco indietro, subito prima di quel capodanno: nel novembre del 1945 il Casinò è ancora chiuso e, in vista della riapertura e del rilancio, viene affidata al floricoltore Amilcare Rambaldi la stesura di una relazione sulle nuove “manifestazioni culturali della Casa da Gioco sanremese” (così scrive Andrea Gandolfo nella sua Storia di Sanremo, 2000, che utilizzo per questi dati).

Rambaldi avanza numerose proposte come “l’istituzione di un conservatorio musicale e di un’orchestra sinfonica, la formazione di un’accademia di arte drammatica e di una compagnia di teatro sperimentale” oltre a più prevedibili tornei di bridge, sfilate di moda e concorsi balneari.

In fine di relazione accenna “anche alla possibilità di dar vita a un festival della canzone”, per il giugno del 1946. Quest’ultima proposta, insieme ad altre come il teatro sperimentale, viene bocciata.

Ma qualche anno dopo Rambaldi riesce a interessare i nuovi amministratori del Casinò e nel 1951 si tiene la prima edizione del festival al salone delle feste e degli spettacoli del Casinò (ah, Rambaldi è ricordato anche per il Club Tenco fondato nel 1972 e per il Premio Tenco, manifestazione che dal 1974 si tiene ogni anno all’Ariston ed è comunemente definita il “Festival della canzone d’autore”. I nomi omaggiano il cantante Luigi Tenco che si è suicidato proprio qui, all’hotel Savoy di Sanremo subito dopo l’eliminazione dal festival nel 1967).

Un vecchio dirigente dell’Azienda di promozione turistica di Sanremo mi raccontava con orgoglio che il festival era stato pensato per “divertire la bella clientela di Sanremo”. Non era un evento che prendeva una città turistica fra le tante e la miracolava con un’immeritata attenzione, ma una manifestazione che la Sanremo del Casinò e dei re, la Sanremo ancora esclusiva (quasi) come Montecarlo, promuoveva per i suoi ospiti. Già dalla prima edizione il festival fu diffuso alla radio (Rete Rossa, infine divenuta Rai Radio1) ma la prospettiva era: il festival è un diamante della corona di Sanremo regina.

Il dj e musicista The Bloody Beetroots regala magliette ai fan fuori dal teatro Ariston, febbraio 2014. (Simone Donati, TerraProject/Contrasto)

Oggi le cose sono molto diverse: i nuovi ricchi di Calvino non si vedono se non nella peculiare forma di “nuovi ricchi russi” attirati dalla città cara alla zarina Maria Aleksandrovna, con tanto di chiesa russa nei pressi del Casinò e soprattutto con Costa Azzurra e Montecarlo a venti minuti d’autostrada.

Il salone delle feste ospita le slot machine e numerosi sono i sanremesi che “tentano la fortuna”, forse non con lo spirito del disoccupato aggrappato al gratta e vinci ma certo non con quello del milionario annoiato. Fino a una quindicina d’anni fa ai sanremesi era vietato giocare al Casinò, poi progresso del pensiero neoliberale e cinismo di cassa hanno tolto pure il vincolo di minima tutela e prudenza e si è avviata perfino questa speculazione.

“Ma controprogrammano?”, si chiedono i sanremesi in questi giorni. Hanno imparato il termine tecnico undici anni fa: ricordano ancora l’edizione del 2004, quando Il Grande fratello su Canale5 batté al giovedì il festival di Simona Ventura. E l’anno scorso, nella seconda serata, lo share è stato poco sopra il 30 per cento, mentre gli spettatori sono scesi sotto i nove milioni (e sotto i quattro nella seconda parte). I titoli arguti alla “Festival: vado al minimo” preoccupano davvero, perché “se perdiamo pure il festival, a Sanremo si chiude”.

Lo sanno tutti qui. Lo sanno quelli che hanno visto il primato dei quattro casinò italiani – Sanremo, Venezia, Saint Vincent e Campione d’Italia, tutti al nord – cedere ai bar con i videopoker e alle mille altre forme di azzardo diffuso. Perfino di fronte all’Ariston, dove prima c’era una gioielleria, hanno aperto un esercizio con slot machine, poco attraente ma funzionale.

Lo sanno tutti quelli che hanno visto la floricoltura perdere quote di mercato e terreno anno dopo anno, letteralmente: le case con il magazzino a piano terra e l’appartamento al primo piano le vendono i figli dei fioristi ai benestanti pensionati lombardi o tedeschi che convertono i magazzini in ampi saloni o appartamenti indipendenti e smantellano le serre, forse per piantarvi alberi da frutta, forse per costruirvi ancora sopra (certo alcuni giovani floricoltori resistono tenacemente e tentano la strada dell’agriturismo, anche se la Toscana è lontana).

La gigantesca struttura di Valle Armea, inaugurata proprio negli anni in cui si cominciava a vedere chiaramente la forte discesa e, come ho già ricordato, sede della tragicomica edizione del 1990, non ha più nulla della frenetica attività che negli “anni buoni” si sviluppava nel vecchio mercato del centro città (oggi chiamato “Palafiori”, con nome e rimodernamenti che tentano pietosamente di ingentilire il brutalismo selvaggio e cupo dell’edificio).

I fioristi arrivavano alle tre e mezzo del mattino e alle nove e mezzo, finite le contrattazioni e prima di tornare a lavorare in campagna, facevano un giro nella vicina via Matteotti, passavano davanti all’Ariston e spendevano in abbondanza nei negozi. “L’economia così girava”, ricorda con nostalgia mia madre (commessa, non fiorista, purtroppo).

E lo sanno quelli che lavorano nel turismo con contratti sempre più corti e vecchi libretti di lavoro dove gli hotel che hanno cessato l’attività sono sempre di più (il Savoy di Tenco, inaugurato a inizio novecento, rimase chiuso a lungo e venne quindi convertito in appartamenti privati all’inizio di questo secolo; numerose strutture ne hanno seguito il destino). Anzi oggi il tradizionale lavoro senza contratto, il “nero” per una parte o per tutta l’opera prestata, cede per troppi il passo al nulla, al bianco della disoccupazione.

Ma Carlo Conti ispira fiducia, ha finito da qualche mese Tale & Quale, il programma di grande successo per il venerdì sera degli anziani su RaiUno, dove, spiega sempre mia madre, “imitano i cantanti del festival di una volta”. Ma non dice, naturalmente, anziani e aggiunge veloce: “Il festival è una trasmissione per tutte le età”. Il festival del 2015 sarà quello del riscatto, per tutta la città. Dell’ennesimo riscatto, perché – diciamo convinti – Sanremo un anno va su, due giù, poi riprende di nuovo e la ruota gira.

Nel 1977, il primo anno all’Ariston, la Rai trasmise in tv solo la serata finale, Mike la presentò e vinsero gli Homo Sapiens (oggi ricordati sempre e solo come esempio di cantanti dimenticati). Ma dopo la crisi arrivò la ripresa, di tutte le serate da parte della Rai e dell’interesse nazionale. Nel 1981 (l’anno del trentennale del festival e pure delle “manette al Casinò”, ma questa è un’altra storia) vince Per Elisa di Alice, seconda Maledetta primavera di Loretta Goggi e quinta Sarà perché ti amo dei Ricchi e Poveri, mentre la sigla è Gioca jouer di Claudio Cecchetto. L’anno dopo Albano e Romina cantano Felicità e l’audience del Festival, non ancora misurata dall’Auditel, è data a 23,3 milioni per le serate del 29 e 30 gennaio (Aldo Grasso, Storia della televisione italiana).

E nel 1982 c’è pure questo scoppiato vestito tutto di nero, questo tipo con la giacca di pelle e la cintura borchiata che canta male su base preregistrata Vado al massimo, vado a gonfie vele e non si può prendere troppo sul serio. Alla fine gira le spalle al pubblico, si mette il microfono in tasca e va via veloce, il filo finisce e il microfono cade. Si sente il tonfo e la voce allarmata dei tecnici. L’artista che viene dopo, Christian, il cantante sentimentale con la claque agguerritissima dentro l’Ariston, lo deve raccogliere da terra per iniziare la sua scarsa imitazione di Julio Iglesias.

Vasco Rossi gareggerà anche l’anno dopo, con Vita spericolata, si classificherà penultimo, andrà primo in classifica, diventerà una star e non tornerà più. Al festival, ma a Portosole, il grande porto turistico di Sanremo, negli anni novanta, terrà la barca.

Allora gliela guardava un mio amico ma non ne parlavamo mai perché eravamo abituati alla discrezione del lavoro per gente famosa e poi ci piacevano i My Bloody Valentine e soprattutto ci piaceva ignorare quello che oggi invece rimpiangiamo. Ma forse Vasco Rossi ce l’ha ancora qui la barca, se certo non posso saperlo, in fondo lo spero. Vado al massimo, vado a gonfie vele!

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