17 aprile 2015 10:45
Raffaele Fitto durante il tour dei “ricostruttori”, contrari alla linea di Silvio Berlusconi , a Palermo, l’8 marzo 2015. (Giuseppe Gerbasi, Contrasto)

Appena due settimane fa, Raffaele Fitto lanciava la sfida a Silvio Berlusconi dal suo blog con queste parole:

C’è ormai un cupo bunker, costruito intorno a Silvio Berlusconi, dove pochi autonominati pretendono di decidere sulla sorte delle persone, e – peggio ancora – sulla linea politica.

A colpire non è solo il fatto che uno dei massimi dirigenti meridionali di Forza Italia, che ha condiviso in un quindicennio ogni misura e ogni diktat del berlusconismo, lamenti ora l’assenza di democrazia all’interno del suo partito. Così come non stupisce più di tanto l’uso di quella metafora – “un cupo bunker” – quasi da ultimi giorni di Salò, per descrivere il declino irreversibile di un capo anziano, indebolito, scollegato dal paese.

A sorprendere di più è che a scrivere quelle parole sia stato colui che, nel settembre del 2001, nominato da poco presidente della regione Puglia, fu investito da Berlusconi con l’appellativo di “mia protesi” in un memorabile discorso d’inaugurazione della fiera del Levante a Bari.

Erano i mesi del trionfo del berlusconismo, dopo le elezioni di maggio e il G8 di Genova. Dalla “mia protesi” al “cupo bunker”, dal comico al tragico, è possibile scorgere l’evolversi di una storia politica: l’insorgenza delle seconde e terze file di Forza Italia, l’esplosione del soggetto politico inventato da Silvio Berlusconi.

Tuttavia, quando si parla di Raffaele Fitto bisogna fare attenzione. Troppo facile vedere in lui l’ennesimo quadro del partito “creato da Berlusconi” che lascia la barca alla deriva, senza sapere dove andare a parare. Alle ultime elezioni europee Fitto ha raccolto oltre 280mila preferenze nel collegio meridionale.

Se oggi si agita tanto contro il capo di ieri, rischiando di essere espulso dal partito in cui è cresciuto, è perché pensa di avere alle spalle un consenso reale. Un consenso territorialmente limitato (in Salento, ancora di più che in tutta la Puglia), ma comunque corposo.

Lo rottura è emersa quando si è trattato di scegliere il nome del candidato alla presidenza della regione Puglia, dopo la fine del decennio vendoliano, e soprattutto i “portatori da voti” da mettere in lista. Chi decide? Roma o chi conosce “il territorio”?

Nel centrosinistra correrà l’ex sindaco di Bari, Michele Emiliano. Nel centrodestra, a oggi, il campo non è ancora chiaro, perché lo scontro tra “il cupo bunker” stretto intorno a Berlusconi e l’ex “protesi” – ormai ben oltre i quaranta – ha raggiunto un livello parossistico. I secondi appoggiano il chirurgo Francesco Schittulli, i primi vogliono candidare Adriana Poli Bortone, ex ministra ed ex sindaca di Lecce, salentina come Fitto. Allora i secondi hanno proposto un ticket Schittulli-Poli Bortone, “ma alle nostre condizioni”. E i primi, sotto sotto, minacciano di espellerli.

Lo scontro va ben al di là della scelta del candidato e delle alleanze. La vera posta in gioco è il controllo di ciò che resta del partito. E non è secondario che tutto ciò avvenga in Puglia in una delle due regioni meridionali che, insieme alla Sicilia, è stata il principale laboratorio del berlusconismo (l’altra faccia, per intenderci, della Lombardia e del Veneto) e che tuttora, in un partito in caduta libera nei sondaggi, costituisce un ampio bacino di voti.

La fotografia della destra italiana che viene fuori da questa diatriba non memorabile è piuttosto sfocata. Da una parte c’è un capo che non controlla più il suo partito, non essendo più in grado di dettare i tempi, le parole, i nomi come ha sempre fatto fin dalla sua fondazione. Dall’altra ci sono segmenti di territorio che vanno da soli, ritenendosi autosufficienti proprio perché non “autonominati”.

Ma ammesso anche che il loro consenso rimanga stabile, gli “autosufficienti” non sono in grado di superare i propri confini locali. Così l’esplosione del centrodestra italiano è anche una esplosione territoriale. Per un ventennio Berlusconi non è stato solo in grado di tenere in mano le redini del suo partito: ha saputo interpretare, e a sua volta alimentare, una sorta di interesse generale, che ha tenuto insieme il nord e il sud, il centro e la periferia, i vari ceti sociali del suo elettorato.

Che a creare questo cemento sia stato il sogno berlusconiano (come vogliono i suoi apologeti) o la semplice, continua riproposizione del corpo del capo, o il percepire la pancia del paese, suo minimo comun denominatore, è in questo momento secondario: comunque Berlusconi è riuscito a essere un leader catalizzatore.
Così il crollo di Forza Italia lascia aperta una prateria, che viene occupata in parte populisticamente (da Matteo Salvini) o in parte territorialmente (dai vari Fitto), mentre lo spazio per un nuovo centro (Alfano e dintorni) in realtà non c’è, e forse non c’è mai stato dal 1992 in poi. Chiunque segni una vittoria territoriale, così come chiunque galvanizzi solo e soltanto le pulsioni elettorali antisistema, non è in grado di ricomporre il vaso andato in frantumi.

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