30 maggio 2015 15:31

Alla fine le elezioni regionali rischiano di diventare un problema esplosivo per il premier Matteo Renzi. Domenica 31 maggio si vota in sette regioni: Veneto, Liguria, Toscana, Umbria, Marche, Campania e Puglia. Fino a qualche giorno fa, il centrosinistra era convinto di vincere per 6 regioni a 1.

Non avrebbe arginato la vittoria di Luca Zaia in Veneto, ma si sarebbe impegnato allo stesso tempo a ottenere un difficile successo in Liguria e Campania. Quanto al resto, nelle tre regioni centrali la vittoria del centrosinistra è più o meno certa. Così anche in Puglia: contro l’ex sindaco Pd di Bari Michele Emiliano il centrodestra corre diviso.

Ma poi è esploso il nodo Campania, tirandosi appresso il rapporto intricato tra politica e giustizia, e la stessa unità del Partito democratico. Quando alcuni mesi fa, Renzi non è riuscito a opporsi al trionfo di Vincenzo De Luca nelle primarie per il candidato alla presidenza della regione Campania si è infilato in un vicolo cieco, di cui ha sottovalutato la portata dirompente.

Governare i potentati locali

Da una parte quelle primarie, al pari di altre, hanno rivelato la difficoltà dei vertici romani del Pd di governare e dirigere ciò che avviene in nodi nevralgici del territorio italiano. Un Pd forte al centro e nelle aule parlamentari è sostanzialmente incapace di imporre la propria linea politica alla base e ai quadri intermedi nelle cento province del paese, tanto da essere spesso succube nei confronti delle strategie dei potentati locali.

Dall’altra, così facendo, ha lasciato che il paradosso De Luca prendesse forma. In base alla legge Severino, se il candidato salernitano venisse eletto alla carica di governatore dovrebbe essere sospeso subito dopo, a causa di una condanna in primo grado per abuso di ufficio.

Si può discutere a lungo sui profili di costituzionalità delle disposizioni in materia di incandidabilità. Da settimane, però, il dato politico è un altro. Difficile far eleggere un candidato che appare macchiato dalla condanna per un reato prossimo alla galassia della corruzione: è la stessa narrazione renziana a incepparsi davanti a un caso che non ha saputo arginare.

Per questo, da giorni, una parte dei vertici del Pd aveva probabilmente maturato l’idea che fosse meglio perdere la Campania (con tutto quello che ne consegue in un’epoca in cui si personalizzano anche test elettorali locali) piuttosto che infilarsi in un ginepraio politico-giudiziario un minuto dopo il successo elettorale.

Su questo limbo è piovuta la diffusione della lista degli “impresentabili” da parte della commissione bicamerale antimafia, presieduta da Rosy Bindi.

In cima alla lista dei sedici “impresentabili” c’è proprio l’ex sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, non tanto per la condanna per abuso d’ufficio, quanto per un’altra vicenda: un giudizio pendente per il reato di concussione continuata che risale al 1998.

A questo punto il caso è esploso. Ma prima ancora delle spaccature interne al Pd, e dell’eventuale “utilizzo politico” della commissione antimafia, come lamentano i suoi detrattori, l’intera vicenda rivela la debolezza della politica nel darsi delle regole condivise. Condivise anche all’interno dello stesso partito.

La confusione è alimentata dal fatto che la legge Severino e il codice di autoregolamentazione sulle candidature approvato in commissione antimafia, in base al quale è stata promulgata la lista degli “impresentabili”, non dicono la stessa cosa.

Per la legge Severino, non sono candidabili tutti coloro i quali sono stati condannati per reati legati alla corruzione in via definitiva, mentre sono sospesi coloro i quali sono condannati in primo grado. Da qui discende il paradosso della candidatura di De Luca: poiché condannato in primo grado per abuso di ufficio, si è potuto candidare, ma in caso di elezione potrebbe essere sospeso.

L’indebolimento della commissione antimafia

Il codice etico dell’antimafia definisce invece come “impresentabile” anche coloro i quali abbiano ricevuto una condanna non definitiva o una citazione diretta a giudizio per una fitta lista di reati che hanno a che fare con il mondo della criminalità organizzata. È uno standard molto più severo, che in certi casi – per dirla tutta – fa a pugni con il concetto di presunzione di innocenza, ma allo stesso non ha alcun effetto pratico, al di là della diffusione di una sorta di lista di proscrizione.

Quindi gli “impresentabili”, che non sono la stessa cosa degli “incandidabili” (e neanche dei “sospendibili”) non decadono dalle liste. In tutta questa confusione, che piomba addosso a un elettorato già abbastanza distaccato dalla politica, emergono almeno tre aspetti.

Il primo è l’indebolimento della stessa commissione antimafia. Andando indietro con la memoria, è difficile trovare un caso in cui la commissione sia stata oggetto di un tale fuoco di fila da parte dei vertici dello stesso partito di maggioranza.

Il secondo attiene al rapporto politica-giustizia. Definire chi è candidabile o no è una questione di opportunità politica. Dovrebbe essere sciolta dai partiti autonomamente, senza aspettare il pronunciamento dei tribunali. Alcuni candidati possono essere “impresentabili” per il semplice fatto di aver fatto delle dichiarazioni inaccettabili (sulla mafia, i profughi, i rom, il passato dell’Italia…) senza che queste dichiarazioni abbiano rilevanza penale.

Nel momento in cui le forze politiche sono incapaci di farlo autonomamente e demandano a istituzioni o regolamenti esterni la soluzione dei casi, si entra in un campo minato, i cui eccessi possono essere da una parte la gogna giornalistica e dall’altra la lesione degli stessi codici che ci si vuole dare.

Anche in questo caso, sono sempre la debolezza e la porosità della politica a determinare le invasioni di campo dell’elemento giudiziario.

Il terzo aspetto è tutto politico. Renzi ha sottovalutato che l’azione di un partito di maggioranza non si limita a Palazzo Chigi e a Montecitorio, ma attraversa l’intero paese, con le sue fratture, le sue particolarità, i suoi potentati, i suoi trasformismi, i suoi buchi neri. La forza politica che si candida a diventare il partito della nazione, inglobando peraltro segmenti politici finora estranei al suo perimetro, non può non tenerne conto.

Averlo sottovalutato ha aperto la prima grossa falla nella sua immagine vincente. Ora il governo si ritrova davanti a un bivio non entusiasmante. Se De Luca vince le elezioni, l’immagine del Pd (e quindi del governo) sarà legata a filo doppio a quella di un “impresentabile” che entra nelle stanze del potere di una regione chiave. Se le perde, probabilmente trarrà un sospiro di sollievo. Ma allo stesso tempo si esporrà a una critica che avrebbe voluto e potuto evitate: è stato lo stesso governo a cucirsi addosso una sconfitta in una delle regioni più importanti.

Tutto il resto, compreso il risultato delle elezioni nelle altre regioni, finirà in secondo piano.

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