08 dicembre 2014 18:18

Quando l’agente di polizia Darren Wilson si è presentato davanti al grand jury per dare la sua versione sulla morte di Michael Brown, ha descritto una scena che sembra tratta da un fumetto degli X-men o da un poliziesco dove il cattivo non ne vuole sapere di morire.

Wilson ha raccontato di aver sparato quattro raffiche – in seguito si è scoperto che i colpi in tutto sono stati dodici, di cui almeno sei arrivati a segno – e che le prime tre non avrebbero minimamente impensierito Brown, che anzi avrebbe continuato ad attaccare l’agente fino a quando non è stato raggiunto dal proiettile letale, l’ultimo, quello che lo ha colpito alla testa.

Nella ricostruzione dell’agente, lo scontro comincia quando Brown rifiuta di spostarsi dal centro della strada e si avvicina all’auto. Comincia una lite, il ragazzo cerca di impossessarsi dell’arma e Wilson spara il primo colpo. Un attimo dopo l’agente guarda in faccia Brown e vede:

Un’espressione intensa, aggressiva. L’unico modo in cui posso descriverlo, è che sembrava un demone, per quanto era arrabbiato. Ho visto le sue mani alzarsi, non so a che distanza, ma venivano verso di me. Ho visto ancora la sua faccia arrabbiata, e mi sono coperto la faccia per proteggermi. Mi sentivo come un bambino di cinque anni preso nella stretta di Hulk Hogan.

A quel punto Wilson si ferma un attimo per assicurarsi che l’arma sia carica e spara un altro colpo verso Brown, probabilmente ferendolo al braccio. Il ragazzo si allontana correndo – lasciandosi dietro “una nuvola di polvere”, dirà Wilson al grand jury. L’agente scende dall’auto e comincia a inseguirlo a piedi.

All’improvviso Brown si ferma, si volta verso Wilson e si prepara a caricarlo a testa bassa. Quello che succede dopo l’agente lo racconta ai giurati con un’altra descrizione confusa in cui Brown – che ha diciotto anni ed è disarmato – appare ancora come una creatura non umana, stavolta con sfumature animali:

Si gira, mi guarda ed emette una sorta di grugnito, un suono cupo, poi comincia a venire verso di me. Io continuo a dirgli di fermarsi e di buttarsi a terra, ma non lo fa. Sparo una serie di colpi, non so quanti, so solo che sparo.

Wilson ha raccontato che da quel momento ha cominciato a perdere la percezione della realtà e ad avere una visione ristretta. Vedeva il fumo uscire dall’arma e uno strano riflesso nero. Poi ha fatto partire la terza raffica di colpi, andando a segno almeno una volta. Ma Brown, che era già stato colpito più di una volta, non voleva saperne di fermarsi. Continuava ad andare verso di lui con la stessa espressione da toro scatenato sulla faccia. E ha completato la trasformazione da diciottenne corpulento a creatura disumana: da demone con le sembianze di Hulk Hogan ad animale inferocito a zombie:

Sembrava quasi che si esaltasse andando incontro alle pallottole. Dall’espressione che aveva sembrava che mi attraversasse con lo sguardo, come se non fossi neanche lì, se non fossi sulla sua strada. Sapevo che se gli avessi permesso di raggiungermi mi avrebbe ucciso, e ho sparato ancora.

È l’ultimo proiettile, quello che colpisce Brown alla testa e lo uccide. La testimonianza di Wilson è sconvolgente per vari motivi. Per esempio, viene da chiedersi come sia possibile che un poliziotto premiato solo sei mesi prima per lo “straordinario impegno in servizio” possa permettere che un semplice fermo stradale si trasformi in una lotta all’ultimo sangue per la sopravvivenza. O come possa affrontare una situazione così delicata con così poca lucidità, dimenticando completamente i rapporti di forza. Ma è sconvolgente soprattutto il racconto in sé, le parole sproporzionate, le descrizioni surreali, la costruzione di una storia in cui un ragazzo disarmato diventa una bestia selvaggia con caratteristiche soprannaturali e un poliziotto armato si trasforma un agnellino sopraffatto dalla paura.

In realtà, l’idea che esistano dei neri con una forza sovrumana e capaci di farsi trapassare dalle pallottole senza morire non nasce a Ferguson nel 2014. Ha radici nella storia dei rapporti tra bianchi e neri. Il mito del giant negro, dell’uomo nero enorme, brutale e selvaggio, si è affermato durante la schiavitù, quando i neri – soprattutto i maschi che lavoravano nei campi – erano valutati principalmente in base alla resistenza e alla forza fisica. Nel 1788 il Columbian Magazine pubblicò un articolo in cui si diceva che i neri “sono molto brutali e per molto aspetti più simili alle bestie che agli uomini. Sono agili e possono correre a velocità incredibili”.

Il mito è sopravvissuto alla guerra civile che ha messo fine alla schiavitù ed è stato usato spesso per giustificare i crimini ai danni dei neri o per sostenere le accuse nei loro confronti. Nel 2007 il blog Undercover black man ha ripescato dagli archivi di vari giornali statunitensi – soprattutto del New York Times – decine di articoli di cronaca risalenti all’inizio del novecento. I titoli grotteschi – “Big negro spread terror”, “Giant negro attacks police”, “Battle to death with giant negro” – ricordano in modo inquietante la vicenda di Michael Brown e di Eric Garner, il nero di 43 anni morto il 17 agosto durante un tentativo di arresto.

Un articolo di giornale uscito il 9 aprile 1912, negli Stati Uniti. (Dr)

Dopo la decisione di un grand jury di New York di non incriminare Daniel Pantaleo, il poliziotto che ha causato la morte di Garner, alcuni commentatori hanno detto che l’agente è stato costretto a usare le maniere forti perché Garner era almeno settanta chili più pesante di lui. È vero, però oltre a Pantaleo c’erano almeno altri quattro poliziotti.

Nel sud degli Stati Uniti i politici locali usavano la leggenda del giant negro per giustificare l’opposizione alle leggi contro i linciaggi degli afroamericani. Una volta Thomas Sisson, un politico del Mississippi, disse: “Proteggeremo le nostre ragazze e le nostre donne da questi neri animali. Quando questi demoni neri smetteranno di fare del male alle donne del sud, allora i linciaggi finiranno”.

Con il passare degli anni le violenze nei confronti dei neri sono diminuite o sono diventate meno evidenti, ma la retorica del giant negro ha continuato a essere usata come arma politica e ad alimentare la fiamma del pregiudizio razzista. Succede ancora oggi. Nel 2008 Ashley Todd, una volontaria della campagna presidenziale del candidato repubblicano John McCain, denunciò alla polizia di essere stata aggredita e rapinata da un nero alto quasi due metri. Todd raccontò che l’uomo le aveva intagliato la B di Barack sulla guancia dopo aver visto che sulla sua macchina c’era un adesivo di McCain. La storia fu usata dall’emittente di destra Fox per mettere in cattiva luce Barack Obama e il Partito democratico. Qualche tempo dopo Todd confessò di essersi inventata tutto.

Alcuni passaggi della testimonianza di Darren Wilson – “sembrava un demone”, “si esaltava andando incontro alle pallottole”, “sembrava che mi attraversasse con lo sguardo” – rispolverano un altro antico stereotipo razzista ancora presente nella società statunitense, quello secondo cui gli afroamericani sono dotati di poteri soprannaturali.

Qualche tempo fa la rivista scientifica Social of social psycological and personality science ha condotto una ricerca sull’idea che gli americani hanno dei neri, e ha scoperto che i bianchi tendono più di altri gruppi ad associare i neri a parole come “fantasma”, “paranormale” e “spiriti”. Inoltre, ha dimostrato che più le persone tendono a vedere i neri come creature soprannaturali più sono convinte che il loro livello di sopportazione del dolore sia più alto del normale. È l’idea del magical negro, uno stereotipo che, come quello del giant negro, è nato nel periodo della schiavitù ed è servito in seguito a giustificare il dominio politico, economico e culturale dei bianchi sulla comunità afroamericana.

È uno stereotipo molto presente nella cultura popolare americana, soprattutto nel cinema, che lo ha rielaborato per costruire personaggi positivi ma irreali, poco umani, che quasi sempre si riducono a fare da spalla al protagonista bianco. In La leggenda di Bagger Vance, di Robert Redford, Will Smith interpreta il ruolo del caddie veggente che aiuta il golfista Matt Damon a recuperare lo swing e la gloria perduta. Il film è ambientato nella Savannah (Georgia) degli anni venti, dove un nero poteva essere linciato o bruciato vivo praticamente senza motivo. Nel Miglio verde, Michael Clarke Duncan intepreta un enorme nero, capace di guarire le persone con la sua semplice presenza.

La testimonianza di Darren Wilson riporta paurosamente alla luce questi stereotipi, e rende l’idea di quanto i pregiudizi sui neri siano radicati nella società americana.

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