03 aprile 2015 18:05

Amo i momenti iniziali dei miei viaggi in posti nuovi: quando comincio a tessere i fili di una realtà, quando il tessuto comincia a crescere, quando prende forma e colore definendo meglio il motivo principale, in questo caso gli aborigeni e le loro esperienze. Ma questa eccitazione per la scoperta di un nuovo popolo indigeno si mescola immediatamente alla rabbia per le discriminazioni che è costretto a subire.

Invitata a partecipare a una conferenza sul marxismo organizzata a Melbourne da un piccolo gruppo di sinistra, divido l’appartamento con quattro dei suoi membri (”compagni”, come si definiscono). Una di loro è aborigena. Non l’avrei mai detto, considerando i nuovi tratti. Naturalmente alcune generazioni di matrimoni misti hanno creato una grande varietà in una popolazione che oggi in Australia rappresenta solo il 2,3 per cento di quella totale. Devo ancora capire bene le politiche contrastanti sulla discendenza: il governo cerca di “frammentare” le comunità aborigena con il pretesto, tra le altre cose, del “sangue misto”. Le comunità insistono invece sulla loro comune identità, spesso spezzata, piuttosto che sulla purezza del sangue.

All’università La Trobe ho visitato un istituto che offre assistenza accademica, economica e sociale a circa 150 studenti aborigeni. “Ho tre fratelli”, mi dice la manager Nellie Green, della tribù badimaya, parte del popolo yamatji. “In realtà eravamo in sei”, precisa. “Un fratello e una sorella, quelli con la pelle più chiara, sono stati prelevati dalle autorità e affidati a coppie bianche”. Questo non accadeva nell’ottocento, ma negli anni sessanta del novecento. Nellie l’ha scoperto 23 anni fa, quando aveva 22 anni. Il fratello “prelevato” era nato lo stesso giorno della madre. Gli altri fratelli non hanno mai saputo perché la madre non voleva festeggiare il suo compleanno.

Ho assistito a una lezione di storia e cultura dei popoli indigeni australiani. L’insegnante, Julie Andrews, appartiene al popolo yorta yorta, e lascia che un’altra Julie racconti via Skype agli studenti che esistono circa 150 comunità indigene in Australia occidentale che il governo vuole “chiudere” (con il trasferimento forzato nelle città) perché “non è in grado di fornirgli servizi sanitari, istruzione, acqua, elettricità”. Sto ancora scoprendo l’attuale programma di espulsione e distruzione di massa.

“L’altra Julie”, indigena anche lei, è coordinatrice sanitaria e parla dei risultati disastrosi di queste politiche: alcolismo, vagabondaggio, famiglie distrutte, istruzione insufficiente, povertà. “I bianchi si lamentano dicendo che i servizi sono pagati con le loro tasse. Forse però dovrebbero pagare l’affitto per la terra che ci hanno sottratto”, dice Andrews. Gli attivisti non hanno alcun dubbio: la distruzione delle comunità mira a permettere alle compagnie minerarie di sfruttare il sottosuolo.

(Traduzione di Francesca Sibani)

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