29 giugno 2015 16:08

È cominciato il Ramadan, e alle otto del mattino le strade sono quasi deserte. Il digiuno spinge le persone a dormire fino a tardi. Alcuni però si alzano presto per lavorare, come il tassista che mi porta al tribunale militare. L’inizio del processo contro Khalida Jarrar è previsto per le 9.30 e voglio arrivare presto al checkpoint.

Tassista: “Hanno revocato i permessi per colpa dell’attacco di ieri” (un diciottenne di Sair, vicino a Hebron, ha accoltellato a Gerusalemme un poliziotto israeliano). Io: “Sì, lo so”. T: “Io ho un permesso speciale per andare a Gerusalemme”. Io: “Per il Ramadan?”. T: “No, sono cristiano”. Io: “Di dove?”. T: “Taybeh”. Io: “Anche a te hanno revocato il permesso?”. T: “No, il mio è gestito dalla chiesa. Vado a trovare mia moglie e i miei figli. Lei è di Gerusalemme. Non possiamo vivere insieme per colpa del muro. Se si trasferisse da me nel villaggio, le toglierebbero la residenza e resterebbe senza documenti”.

Nel cortile recintato del tribunale militare, in attesa di entrare, alcuni ragazzi mi raccontano perché sono lì, la maggior parte per infrazioni stradali (sì, se ne occupa un tribunale militare).

Khalida Jarrar è stata eletta al parlamento palestinese nella lista Abu Ali Mustafa ed è accusata di far parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, perché ha fatto visita ad alcuni ex prigionieri. È stata arrestata il 2 aprile, mentre io ero all’estero. Ora ho finalmente l’occasione di rivederla, come giornalista e come amica.

Traduzione di Andrea Sparacino

Questo articolo è stato pubblicato il 26 giugno 2015 a pagina 27 di Internazionale, con il titolo “Giornalista e amica”. Compra questo numero | Abbonati

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