05 ottobre 2015 20:25
Le forze di sicurezza palestinesi cercano di separare i manifestanti dall’esercito israeliano a Hebron, in Cisogiordania, il 29 settembre 2015. (Mussa Qawasma, Reuters/Contrasto)

La settimana scorsa un proiettile sparato da un soldato israeliano ha ferito una ragazzina palestinese che partecipava a una manifestazione contro gli insediamenti in Cisgiordania. Suo padre, che stava cercando di soccorrerla, è stato a sua volta colpito da un proiettile. L’uomo è un alto ufficiale della polizia palestinese. Un mio amico, un avvocato palestinese, mi ha lasciata a bocca aperta con il suo commento: “Gli sta bene. È uno di quelli che picchiano i ragazzi quando protestano contro la collaborazione tra le forze di sicurezza palestinesi e Israele”.

Due settimane fa la polizia palestinese ha ferito gravemente un ragazzo di Betlemme durante una manifestazione legata alla questione della moschea di Al Aqsa. La polizia aveva l’ordine di impedire ai dimostranti di avvicinarsi ai soldati israeliani, teoricamente per proteggerli. Una telecamera ha però immortalato gli agenti mentre picchiavano selvaggiamente tre ragazzi. Le immagini sono state diffuse sui social network e la polizia ha dovuto scusarsi. Uno dei ragazzi picchiati era il figlio di un alto funzionario.

A Hebron, al funerale di una ragazza uccisa dai soldati israeliani, molti ragazzi hanno contestato l’Autorità Nazionale Palestinese e il presidente Abu Mazen. Scommetto che molti di loro sono figli di impiegati dell’Anp. I padri palestinesi sono dilaniati: da un lato c’è la necessità di rispettare gli ordini, dall’altro c’è l’amore per i loro figli, che incarnano la rabbia popolare.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 2 ottobre 2015 a pagina 29 di Internazionale, con il titolo “Padri e figli”. Compra questo numero | Abbonati

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