23 novembre 2015 15:57

“Torneremo a Bir Main, il nostro villaggio”, mi ha detto Daoud, 48 anni, membro di Al Fatah e dipendente dell’Autorità Nazionale Palestinese. Nel 1944 nel villaggio vivevano 510 persone. Oggi si chiama Makkabim e ospita un sobborgo destinato agli ex militari israeliani.

Ho chiesto a Daoud cosa accadrà agli abitanti di Makkabim. “Torneranno da dove sono venuti”, ha risposto. Gli ho fatto notare che questo ragionamento contraddice la politica dei due stati sostenuta da Al Fatah. Daoud non si è scomposto: “Arafat ripeteva il suo slogan ‘alla vittoria’ tre volte. Una per il 1967 (l’occupazione dei territori palestinesi), una per il 1948 (il riconoscimento internazionale di Israele) e una per una rivoluzione nel mondo arabo”.

Daoud è stato gentile e mi ha invitata a tornare. Abbiamo parlato dopo un raid notturno dell’esercito israeliano nel campo profughi di Qalandiya, dove vive. L’obiettivo del raid era la demolizione punitiva di un appartamento dove un palestinese accusato di aver ucciso un ebreo viveva con la moglie e i due figli. I vicini hanno ricevuto l’ordine di lasciare le loro case prima della demolizione, ma al loro ritorno hanno scoperto che altre nove case erano state danneggiate. L’esercito ha anche ucciso due uomini che hanno cercato di opporsi al raid, uno armato di pietre e l’altro con un’arma da fuoco.

Gli abitanti di Qalandiya sembravano molto demoralizzati. Forse le parole di Daoud sulle future vittorie sono il rimedio più adatto.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 20 novembre 2015 a pagina 29 di Internazionale, con il titolo “Ordine di demolizione”. Compra questo numero| Abbonati

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