23 maggio 2016 21:04

Quando Manhattan diventa troppo claustrofobica, si può sempre attraversare il ponte e andare a “little Arabia” (Astoria, Queens) o a “little India” (Jackson Heights). Lì gli edifici sono di dimensioni umane e le persone non sembrano uscite da una rivista di moda. La società dell’immigrazione è perfettamente in mostra.

La settimana scorsa sono andata a little Arabia a causa di un pacchetto di caramelle al pistacchio prodotte a Ramallah, in Cisgiordania. Il giovane venditore di un negozio di Ramallah aveva capito che stavo partendo per un lungo viaggio dalla quantità di miscela di spezie zaatar che avevo comprato. Quando ha scoperto che sarei andata a New York mi ha chiesto di portare un regalo alla sorella che vive nel Queens.

Immigrazione senza opportunità

Quando sono arrivata i quattro figli della donna stavano già dormendo al suono rassicurante del canto dei versetti del Corano, trasmesso online. Non sembrava di essere a New York. Il marito, nato negli Stati Uniti da genitori originari dello stesso villaggio vicino a Ramallah dov’è nata la moglie, non era in casa. Lei mi ha confessato che il marito non vuole aiutarla con le faccende domestiche. Forse è per questo che il suo inglese, dopo otto anni negli Stati Uniti, è ancora insufficiente.

“Mi sono sposata subito dopo il diploma (in Palestina) e poi sono arrivati i figli”, mi ha detto. Non riusciva a spiegarmi quale fosse il lavoro del marito. Dopo un po’ è arrivato anche lui. Durante una piacevole conversazione ho scoperto che al momento è disoccupato. La donna non sapeva che suo marito è disoccupato? O non voleva dirmelo? L’immigrazione non è fatta solo di opportunità.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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