11 luglio 2016 19:14

C’è una donna di spalle con un paio di jeans, una camicia di colore chiaro a maniche lunghe e il capo coperto. Tiene qualcosa dietro la schiena. Si avvicina a due soldati armati e con l’elmetto, a una fermata dell’autobus riservata agli israeliani su un’autostrada che percorre la Cisgiordania da ovest a est. La donna alza il braccio destro, nella mano impugna un coltello.

Si trova a 50 o 80 centimetri da uno dei soldati, che si addossa alla banchina. I due soldati indietreggiano guardando la donna. Puntano i fucili. Lei continua a brandire il coltello e ad avvicinarsi a loro. Uno dei due le spara. La donna si porta una mano all’addome e cade a terra. In seguito si viene a sapere che il suo nome è Jamila Jaber, ha 17 anni, ed è originaria del villaggio di Al Zawiyyeh. Viene curata da un’equipe medica dell’esercito, poi trasportata in un ospedale israeliano. Ora dovrà affrontare una lunga riabilitazione da detenuta, poi un processo militare e infine sarà condannata.

L’episodio è avvenuto mercoledì, di mattina. Un altro caso di “suicidio per mano della polizia”. Quali segreti nasconde Jamila? Per caso la telecamera dell’auto di un colono che percorre quella strada ogni giorno ha registrato le immagini. L’autista parla di “terrorismo” e si lamenta perché lo stato “non agisce contro il terrore”. Non fa alcun riferimento all’apparente mancanza di esperienza o di motivazione dei soldati. Non sanno fare altro che usare le armi? Non potevano semplicemente immobilizzare la donna e disarmarla?

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata l’8 luglio 2016 a pagina 25 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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