17 aprile 2017 17:02

Uno dei miei privilegi in quanto ebrea è poter rimproverare i soldati israeliani mentre compiono la sacra missione di molestare i palestinesi. Quei ragazzi in uniforme restano stupefatti quando vedono una signora che potrebbe essere la loro nonna gridargli contro.

“Noi non potremmo mai rivolgerci a loro così”, mi dicono i palestinesi che assistono alla scena. E io rispondo: “Certo che no, verreste puniti. È per questo che urlo ancora più forte, visto che voi non potete farlo”.

Alcuni giorni fa ho avuto una discussione con un ufficiale arrivato in ritardo, come al solito, ad aprire un cancello per far passare i contadini attraverso la barriera di separazione. Duecento contadini palestinesi esausti e affamati aspettavano di passare. Alcuni erano arrivati a piedi, altri con i trattori. Dopo un ritardo di mezz’ora ho chiamato il portavoce dell’esercito, che ha promesso di informarsi. Dieci minuti dopo è arrivata la jeep dell’esercito e ho scattato una foto ai soldati a bordo. L’ufficiale mi è corso incontro ordinandomi di cancellare le immagini. Ho chiesto il suo nome, ma non me l’ha detto. Gli ho ricordato che scattare fotografie non è vietato, ma lui ha insistito. “Ha qualcosa da nascondere, per caso? Di cosa ha paura?”, gli ho chiesto. Ma temendo che lasciasse i contadini ancora in attesa, ho finto di cancellare le foto mentre continuavamo a litigare.

Più tardi uno dei contadini mi ha detto che l’ufficiale era un arabo israeliano, probabilmente un druso.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 14 aprile 2017 a pagina 25 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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