02 giugno 2004 16:41

Quanto ci interessano le torture dei carcerieri americani sui detenuti iracheni, e quanto ce ne infischiamo invece delle torture inflitte dagli aguzzini russi ai combattenti ceceni prigionieri. Vorrei chiarire di cosa sto parlando. I soldati federali in Cecenia, come gli americani in Iraq, girano spesso dei video – per se stessi e per i loro familiari. È una tradizione. Ed è così che si è formata un’intera videoteca sui crimini della seconda guerra cecena.

Più di un mese fa, la Novaja Gazeta ha pubblicato alcune inquadrature di un video di cui la redazione era entrata in possesso. Non abbiamo ricevuto neanche una telefonata da un giornalista televisivo o da un rappresentante di un qualunque canale televisivo di Mosca e della Russia interessato ad avere il nastro. Magari non per mandarlo in onda, ma solo per averlo in archivio. L’unica richiesta di questo tipo ci è arrivata da un canale privato francese, ma anche loro si sono comportati in modo strano e mi hanno rimproverato perché la registrazione non era stata fatta con una telecamera professionale.

Naturalmente questa non vuole essere una lamentela su come va il mondo, ma una semplice osservazione. Lo scarso interesse dell’opinione pubblica non ha fermato il lavoro sul nastro: io ho continuato la mia inchiesta, ho incontrato testimoni, anche oculari, ho cercato di chiarire i particolari, di sapere cosa ne è stato delle persone che apparivano nel video.

Annientare le personalità

Questo è il racconto di un testimone oculare. Lo chiameremo Arsbi. È stato detenuto a Cernokozovo, un carcere di isolamento ceceno dove sono stati portati i prigionieri e i combattenti amnistiati della zona di Komsomolskoe. Ci siamo incontrati su mia richiesta in una capitale europea, dove Arsbi ha trovato rifugio.

Prima l’ho pregato di cercare di riconoscere qualcuno sul nostro video. Ma poi la conversazione è proseguita e si è ampliata. Ecco la sua testimonianza.

“Mi hanno portato a Cernokozovo il 12 aprile 2000. Eravamo sotto il controllo di un reparto speciale del ministero della giustizia. Nella prigione erano in corso dei lavori di ristrutturazione che venivano fatti da detenuti provenienti dal circondario di Stavropol: ogni giorno di lavoro valeva per tre.

Nella mia cella c’erano prigionieri della zona di Grozny. Appartenevano al gruppo Jihad. È così che si definivano. Wahhabiti. In un’altra cella – ma i detenuti venivano spostati di continuo per non dargli il tempo di fare amicizia – sono stato insieme ai combattenti di Komsomolskoe. La musica era la stessa per tutti: io non avevo combattuto, però mi picchiavano come gli altri.

Da Cernokozovo sono uscito con addosso una maglietta. Sul rovescio ci avevamo scritto i nomi dei miei compagni di prigionia. Mi sono messo la maglietta e mi sono avviato all’uscita – i sorveglianti non hanno pensato che potesse contenere delle informazioni. Ho deciso di conservare la maglietta per la storia.

Tra i combattenti della cella numero 10 c’era un russo – Aleksandr Lisnjakov, classe 1961, della regione di Perm. Era arrivato in Cecenia tra le due guerre. Si era convertito all’islam ed era rimasto a combattere come volontario. Poi era stato preso prigioniero. Sasha e io siamo stati nella stessa cella per quasi tre settimane.

A Cernokozovo lo picchiavano continuamente e molto duramente, ma lui era di tempra più salda dei ceceni. Sono stato anche nella prigione di Pjatigorsk, due mesi. Ma ecco, a Cernokozovo distruggevano la personalità. Un uomo era considerato meno di una bestia. In cella non potevamo neppure parlare e guardarci in faccia. Non potevamo sbirciare dallo spioncino della porta. Ed era vietato pregare. Bisognava stare seduti con la testa china e gli occhi bassi. Qualsiasi altro comportamento era considerato un tentativo di fuga.

Pregavamo di nascosto. A turno. Camminavamo pian piano nella cella in modo che chi pregava desse le spalle allo spioncino e potesse muovere le labbra. A Cernokozovo non resta che sperare in Dio: prima di finire in prigione non pregavo, ho cominciato in carcere – me lo hanno insegnato i wahhabiti in cella con me.

Una volta al giorno ci portavano a fare una passeggiata – noi commentavamo, scherzando ‘Mettiamoci il giubbotto antiproiettile’. Fare la passeggiata significa mani dietro il capo, testa bassa, e all’ordine ‘Via’ devi metterti a correre. Non puoi rallentare, bisogna correre in corridoio e in cortile. Se cadi o rallenti il passo, te le suonano.

Lo slalom e le corse

Quando arrivava l’ora della passeggiata, tutto il personale di Cernokozovo si radunava in cortile. Si disponevano a scacchiera e tutti avevano qualcosa in mano: manici di vanga, bastoni, manganelli… per picchiarti. Di giorno è l’unico divertimento. Tu fai lo slalom e tutti ti pestano. Fino al cortile della passeggiata. Anche là bisogna correre, ma in cerchio.

Se qualcuno inciampava lo bastonavano. Ma se uno cadeva tutti gli altri finivano addosso a lui, perché non si poteva rallentare e nessuno riusciva a vedere bene davanti a sé: la testa doveva essere china. E così uno cadeva, gli altri gli finivano addosso – e loro pestavano tutti. Il principio era sempre lo stesso: più uno è forte più bisogna suonargliele.

Nella cella numero 2 sono stato con Umarov Magomed, che aveva combattuto per Komsomolskoe. Classe 1978. Wahhabita. Era stato ferito a una gamba. Lo gonfiavano da far paura. Con Umarov sono rimasto per circa quattro settimane, poi mi hanno trasferito.

I wahhabiti le guardie li chiamavano ‘waha’. Gridavano ‘Sei waha?’. Uno prima non capiva cosa volessero dire, e rispondeva: “No, mi chiamo Magomed”. I secondini andavano in bestia e lo picchiavano.

Ricordo Ajndi, sedici anni, del villaggio di Valerik. Ajndi era uno di quelli che puoi picchiarlo finché vuoi, ma non si piega. Era privo di qualsiasi istruzione. Non era mai andato a scuola. Non sapeva scrivere. Quando arrivò in cella aveva la testa coperta di cicatrici. Aveva combattuto a Komsomolskoe.

A Cernokozovo sono stato anche con gli uomini di Gantamirov – un leader ceceno che si era schierato con i russi, ma poi ha preso le distanze da Kadyrov. Gli avevano dato l’articolo 105, omicidio. Erano quelli che avevano attaccato Grozny, i primi a penetrare in città; poi i russi li avevano messi a difendere il posto di blocco. Dopo c’è stato un misterioso incidente con i federali. E a quel punto li hanno arrestati.

A Cernokozovo ho visto anche delle donne – dodici in tutto. C’era una russa, la moglie di un comandante di campo. L’hanno fucilata. Aveva con sé la figlia, una ragazzina di 16 anni. Però le donne non le picchiavano. Le fucilavano e basta. Lena gridava dalla sua cella, ogni volta che sentiva picchiare gli altri: ‘Fascisti! Belve! Smettetela!’. E batteva freneticamente i pugni sulla porta. Dicevano di averla uccisa durante un tentativo di fuga.

Nella cella numero 3 ho incontrato Aleksej Beljakov di Karaganda. Il suo nome da musulmano era Sulman. Aveva combattuto. Diceva di essere stato campione olimpico di biathlon, Poi era finito in un giro di racket a Karaganda, e si era ritrovato in Cecenia con loro. Si era convertito all’islam, aveva combattuto ed era stato catturato. Non so che fine abbia fatto.

I passatempi della notte

Una volta portarono delle persone massacrate di botte. Ci tirarono fuori dalle celle per scaricarli. Erano molto sporchi, ma ancora vivi. Alcuni di loro erano coscienti. Non potevamo parlare, solo scambiarci delle occhiate. Ci dissero di ammucchiarli in una stanza. Poi morirono.

Di notte ci facevano uscire spesso dalle celle. Cominciava la parte ‘più interessante’, come dicevano i secondini. La porta si apre – sulla soglia appaiono sei uomini. Ti picchiano, ti trascinano nelle loro stanze e ti picchiano ancora. Faccia al muro, manette – e giù con i martelli di legno, dove vogliono. Con quegli stessi martelli ci facevano correre da una stanza all’altra.

Ci guidavano come somari. Ti picchiano a destra – corri a sinistra. Ti bastonano a sinistra – corri a destra. La testa deve essere sempre china. E così arrivi in un posto dove è seduto un uomo, uno che ci gode a tormentare gli altri. Chiede: ‘Dov’è Maskhadov?’. Risposta: ‘Non ne ho la più pallida idea’.

E allora succede di tutto. Giù con le pinze. Con la corrente elettrica in tutto il corpo. Oppure alza il cane della pistola: ‘Se mi dici dov’è Maskhadov ti salvi la pelle. Altrimenti muori subito’. C’era un tipo piccoletto, rosso. Ce la metteva tutta. Cercava di farti più male possibile. Ti veniva una voglia terribile di reagire – e morire subito. Quando prendevano qualcuno per portarlo nelle stanze, gli altri cominciavano a pregare.

La cosa peggiore era sentirli pestare qualcuno. I lamenti, le urla, i gemiti si sentivano benissimo. Era terribile soprattutto quando toccava ai più giovani. Ma l’uomo si abitua a tutto… Una volta ci fanno uscire di cella e ci ordinano: ‘Gridate: Allah è un maiale!’. E noi abbiamo gridato… Sasha Lisnjakov prima di Cernokozovo era stato a Khankala, e diceva: ‘Qui è meglio’. Là era rimasto nudo, a febbraio, in una fossa piena di cadaveri. Diceva: ‘In un primo momento non ce l’ho fatta, ma poi mi sono seduto e sono rimasto lì sui cadaveri – non c’era niente da fare.

Ci tiravano fuori dalle fosse – e ci colpivano sulle gambe con dei tubi’.

Ci sognavamo il pane – da mangiare non c’era quasi niente. Acqua calda nella ciotola e un pezzo di pane al mattino. A pranzo una specie di polentina. E la sera soltanto acqua calda.

Adesso voglio solo vivere. È una grande fortuna essere vivi, mentre gli altri sono morti. Bisogna saperlo apprezzare. Mi hanno rilasciato il 5 ottobre 2000. L’ordine di liberazione era stato redatto due settimane prima. Mi dissero di firmare una dichiarazione che non avevo reclami da sporgere”.

Internazionale, numero 542, 2 giugno 2004

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