05 dicembre 2016 13:22

“È come una sfida a ramino. Puoi vincere o perdere, ma quel che conta è la partita”, dice Dario Fo poco prima di morire. Un bel congedo, da parte di uno che ha sempre giocato le sue carte vincendo e perdendo, e restando capace di riderci sopra.

Individui, squadre, partiti politici, imprese: a tutti capita di vincere o perdere. Si vince e si esulta o si perde e ci si dispera (o si recrimina), ma le cose non sono mai semplici come appaiono: una vittoria può anche anticipare un’ulteriore e più drammatica sconfitta, e una sconfitta può essere il primo passo verso una vittoria futura, ancora più luminosa. Quindi converrebbe sempre, come diceva mia nonna, “stare schisci”.

Ma è più facile vincere o perdere? Mentre spedisco questo articolo, alle 22.50 di domenica 4 dicembre, non conosco ancora i risultati del referendum. Mentre leggete, voi li sapete già. Questa asimmetria informativa permette a me di trattare l’argomento senza retropensieri.

La simpatia per il perdente
E permette a voi, da qualsiasi parte siano andati il vostro cuore e il vostro voto, di leggervi questo testo, che può tornare utile per queste o per le prossime vittorie e sconfitte, senza dover pensare che quando scrivo vittoria o sconfitta, o successo e insuccesso, mi riferisco a Renzi, Grillo, o Berlusconi.

Abbiamo un’ossessione per i vincenti, scrive Psychology Today.

Il sistema dei mezzi d’informazione la rinforza: chi vince è di norma più visibile di chi perde, e la visibilità è una conquista ulteriore perché conferisce, nell’immediato, ancora più potere. Nella cultura giapponese tradizionale, invece, anche la sconfitta può essere nobile e affascinante, ed esiste una parola bellissima, hoganbiiki, che indica la “simpatia per il perdente”.

Le migliori storie di successo spesso cominciano con un fallimento

Sbaglierò, ma a me sembra che nei concetti stessi di “vincente” e di “perdente” ci sia una componente sgradevole. E un pizzico di ignoranza delle cose del mondo.

E poi, perfino prendendo per buono il significato positivo dei due termini, non è per niente detto che chi vince una singola volta sia per definizione un vincente, e che chi perde sia in permanenza un perdente. Il modo e l’entità della vittoria o della sconfitta contano. Soprattutto conta, e moltissimo, quel che succede dopo. Per questo non sto scrivendo di vincenti e di perdenti ma di vittoria e di sconfitta, e dei problemi che con entrambe sono connessi.

Cominciamo con la vittoria e il successo. Il primo punto è tanto semplice quanto controintuitivo: vincere può anche essere terrorizzante o deprimente. Il secondo punto, invece, è ampiamente noto: nelle scienze, nelle arti, negli affari e perfino in politica, le migliori storie di successo spesso – lo ricorda Business Insider – cominciano con un fallimento.

Il successo rende miopi
Il terzo punto dovrebbe aiutare a “stare schisci”. Nella vittoria e nel successo c’è, lo scrive l’Atlantic, una componente di fortuna che molti tendono a sottovalutare per via dell’hindsight bias, il senno di poi, che ci fa ritenere che tutto quanto effettivamente capita fosse prevedibile e necessario, mentre non è così.

Tra l’altro, proprio le persone di maggior successo tendono a sottostimare la propria fortuna. Se solo se ne rendessero conto, sarebbero più generose e meno arroganti (e il loro successo sarebbe più duraturo). O sarebbero meno dubbiose e più grate (e si eviterebbero i tormenti connessi con la sindrome dell’impostore).

Eccoci al quarto punto, che vi rimanda a un bell’articolo di Time: il successo può rendere miopi. E, soprattutto, rende obsoleto il comportamento grazie al quale il successo medesimo è stato conseguito. Quindi, a chi vince tocca cambiare il proprio modo di essere e di fare, forse ancor più che a chi perde: vincere è solo l’inizio di una nuova storia, da raccontare in modi nuovi. Non è la lieta e permanente fine della storia.

Il fallimento è una schifezza, ma è istruttivo. A patto che non ci si ostini a ripetere gli stessi errori

A proposito di sconfitta e fallimento. Non raccontiamoci frottole: perdere è doloroso, favorisce l’aggressività, diminuisce l’autostima e la fiducia. E, poiché non siamo in Giappone, chi perde è anche spesso oggetto di scherno più che di simpatia.
Tuttavia “failure sucks, but instructs”, scrive in modo insolitamente colorito la Harvard Business Review: il fallimento è una schifezza, ma è istruttivo. Lo è a patto che non ci si ostini a ripetere gli stessi errori. Lo è (lo dicono diverse ricerche) a patto che siano costruttivamente discussi i motivi del fallimento, e che la discussione porti a costruire modelli mentali più efficaci.

Il dato interessante è che i modelli mentali risultanti dall’elaborazione dell’esperienza del fallimento risultano sempre più ricchi e fertili di quelli connessi con l’esperienza del successo. Dunque, a chi sperimenta una sconfitta, provare a capire che cosa è capitato e come le cose sarebbero potute andare diversamente serve più che incolparsi, o abbandonarsi a una recriminazione sterile.

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