07 giugno 2016 16:21

Una persona si presenta all’imbarco di un aeroporto, oppure a una frontiera, alla reception di un albergo, al banco di un’agenzia di noleggio automobili. Mostra il suo passaporto e l’assistente di volo (o il venditore, il portiere, l’amministratore o il doganiere) guarda prima il documento, poi il corpo che si trova di fronte e dice: “Questa non è lei!”.

In quel momento si crea una falla sistemica di tutte le convenzioni legali e amministrative che costruiscono le finzioni politiche esistenti. In quel momento la macchina sociale di produzione dell’identità crolla, come al rallentatore, e le sue tecniche (fotografie, documenti, enunciati e così via) cadono una dopo l’altra, come lo schermo di un videogioco su cui lampeggia la scritta “game over”.

Per un istante regna un silenzio glaciale, wittgensteiniano: la sensazione di essere in fuorigioco rispetto al linguaggio, il terrore di aver oltrepassato i limiti dell’intelligibilità sociale, il fascino di poter osservare dall’esterno, o più esattamente dalla soglia, anche solo per un istante, la macchina che ci costruisce come soggetti.

Potrebbe trattarsi di una scena tratta da un incubo o del momento parossistico di una finzione patafisica. Invece è un evento banale nella vita quotidiana di una persona transessuale in attesa che la sua identità venga ufficialmente cambiata. All’esclamazione: “Non è lei questa”, mi viene talvolta voglia di rispondere: “Certo che non sono io! Mi faccia vedere il suo passaporto e mi dica se è lei o no”. Ma eccoci inchiodati, l’agente e io, costretti a interpretare il capitolo della Fenomenologia dello spirito di Hegel, Indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza: signoria e servitù.

Il provvisorio esilio transessuale

Non faccio il furbo. So bene che in questa scena mi spetta il ruolo del servo e non quello del padrone. Ritorno all’ovile del riconoscimento: le frontiere del gioco del linguaggio sono piene d’istituzioni preposte alla reclusione e alla punizione. Rinnego quello che la decostruzione queer mi ha insegnato e mi piego nuovamente alla macchina di produzione sociale del genere: spiego, sventolando una lettera della mia avvocata, che per errore mi è stato attribuito il sesso femminile alla nascita e che la mia domanda di attribuzione d’identità maschile è oggetto di una procedura aperta presso un giudice dello stato spagnolo. Sono in transizione. Sono nella sala d’attesa tra due sistemi di rappresentazione esclusivi.

Transizione è il nome dato al processo che dovrebbe far passare dalla femminilità alla mascolinità (o viceversa) attraverso un protocollo medico-legale di riassegnazione dell’identità di genere. In generale si dovrebbe dire: “Sto facendo la mia transizione”. L’espressione cerca di descrivere la trasformazione da uno stato all’altro e al contempo accentua il carattere temporaneo e quindi provvisorio del processo. Tuttavia, il processo di transizione non designa il passaggio dalla femminilità alla mascolinità (questi due generi infatti non possiedono un’entità ontologica ma solo biopolitica e performativa), ma quello che porta da una macchina di produzione di verità a un’altra.

La persona transessuale è rappresentata come una sorta di esiliata che si sarebbe lasciata alle spalle il genere che le è stato assegnato alla nascita (come se avesse abbandonato la sua nazione) e che sta ormai cercando di essere riconosciuta come una potenziale cittadina di un altro genere.

In termini politici e legali, lo statuto della persona transessuale è paragonabile a quello del migrante, dell’esiliato o del rifugiato

Tutti si trovano in un processo temporaneo di sospensione della loro condizione politica. Nel caso delle persone transessuali, come in quello dei corpi migranti, quel che viene richiesto è un rifugio biopolitico: essere i soggetti di un sistema d’assemblaggio semiotico che dà senso alla vita. L’assenza di riconoscimento legale e di sostegno bioculturale nega sovranità ai corpi transessuali e migranti e li pone in una posizione di vulnerabilità sociale molto elevata.

Detto in altri termini: la densità ontologico-politica di un corpo transessuale o di un corpo migrante è inferiore a quella di un cittadino il cui genere e la cui nazionalità sono riconosciuti dalle convenzioni amministrative degli stati-nazione nei quali abitano. Usando i termini di Althusser, potremmo dire che transessuali e migranti sono messi nella situazione parodistica di dover domandare di essere riconosciuti come soggetti da quegli stessi apparecchi ideologici di stato che li escludono. Domanderemo di essere riconosciuti (e quindi sottomessi) per poter inventare delle forme di asservimento sociale volontario.

Ciò che transessuali e migranti sollecitano, facendo domanda d’asilo o di cambio di genere, sono le protesi amministrative (nomi, diritto di residenza, documenti, passaporti e via dicendo) e bioculturali (alimenti, medicine, componenti biochimici, rifugio, linguaggio, autorappresentazione) necessarie a costruirsi come finzioni politiche viventi.

Quella che chiamiamo “crisi” dei rifugiati o il “problema” delle persone transessuali non potrà essere risolto costruendo dei campi per rifugiati o delle cliniche di riassegnazione sessuale. Sono in crisi i sistemi di produzione di verità, di cittadinanza politica e le tecnologie dello stato nazionale, così come l’epistemologia del sesso-genere binario. Di conseguenza è lo spazio politico nel suo insieme che deve entrare in transizione.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Libération.

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