30 gennaio 2017 17:00

Lavoro a un tavolo che da un lato si trova ad Atene e dall’altro a Barcellona. A un’estremità, lei disegna delle mappe letterarie della città, per rappresentare il quartiere di Besòs, usando come scala la strada nella quale viveva Miguel Bauça, scrittore catalano depresso e masturbatore, poi disegna i contorni del quartiere di Gràcia partendo dai vagabondaggi descritti dal poeta Enric Casasses. Nel frattempo, all’altra estremità, io immagino le forme che potrebbe assumere un collettivo che si riunisse per pensare, per agire o per scopare. Queste forme sono guidate da un patto o da un contratto, dall’autonomia o dall’indipendenza, dalla dimostrazione o dalla sperimentazione, dall’improvvisazione o dalla partizione.

Questo tavolo, diviso da migliaia di chilometri fisici, è tenuto insieme dai sostegni protesici di internet. La musica che esce dalle casse di Atene è quella ascoltata a Barcellona. La voce, il più protesico e fantasmatico di tutti gli organi del corpo (ricordiamoci che nasciamo “senza voce” e che è solo dopo un processo di “socializzazione” che la voce viene “impiantata” nel nostro corpo, come si installa un software) è l’unica cosa che riesce a percorrere la distanza.

Un solo tempo e due spazi. O, se consideriamo i secondi che ci vogliono perché la musica o la voce arrivino da Atene a Barcellona, nota dopo nota, potremmo dire che esistono due tempi e un solo spazio. Ma sono le categorie newtoniane di spazio e di tempo (topologia e cronologia) che sembrano crollare. Galleggiamo. Ci guardiamo e mi domando dove si trovi questo sguardo, come sia possibile guardarsi quando quel che vedono gli occhi non sono altri occhi ma l’immagine degli occhi sullo schermo.

Quel che l’occidente chiama tecnologia non è altro che una versione tecnico-scientifica dello sciamanesimo

La osservo mentre lei guarda una mappa sul suo schermo. È impossibile dire in quale momento i suoi occhi non mi vedono più, in che momento ha sostituito la mia immagine con un’altra. I nostri schermi si guardano. I nostri schermi si amano. Quando questo accade, non siamo in realtà né qui né laggiù. La musica, le mappe, la scrittura, noi stessi in quanto entità relazionali, il nostro amore, esistono allora, si costituiscono, nello spazio che Gilles Deleuze chiama la piega, i cui margini interni sono costituiti da migliaia di cavi internet, pieghe ripiegate e disposte su centinaia di migliaia di schermi.

Gli schermi sono la nuova pelle del mondo, mi dico, spostando la sua immagine con il mio dito per farla coincidere con la mia. Sono la pelle di una nuova entità collettiva radicalmente decentrata e in corso di soggettivizzazione. In poco tempo, gli innesti elettronici trasformeranno le nostre pelli in schermi. Attraversiamo una trasformazione paragonabile a quella vissuta dagli esseri umani quando Gutenberg ha inventato la stampa. Con la riproduzione meccanica della Bibbia è arrivata l’epoca della secolarizzazione del sapere e dell’automatizzazione della produzione. Oggi la rapidità delle trasformazioni tecnologiche supera perfino le previsioni della fantascienza. Ogni anno assistiamo all’obsolescenza di apparecchi e applicazioni che ci sembravano eterni, e alla nascita di novità che assorbiamo in poche ore.

Un giorno arriveremo alla smaterializzazione assoluta e all’automatizzazione totale. Ci sforziamo di naturalizzare tutto, continuiamo a raccontare le nostre passioni come facevamo ai tempi di Omero o di Shakespeare. Ci ostiniamo a preoccuparci di produzione, d’ideologia, di religione o di nazione, quando tutto sta cambiando. Desideriamo continuare a dire che dio esiste, che la nazione esiste, che il sesso esiste, che il lavoro e la disoccupazione esistono. Ma forse non è così.

Non condivido i sogni utopici del post-umanismo, ma neppure le idee di chi considera la tecnologia uno strumento neutro che agisce come un mediatore nella nostra relazione col mondo. Quel che l’occidente chiama tecnologia non è altro che una versione tecnico-scientifica dello sciamanesimo, e cioè una delle forme che assume la nostra coscienza quando si esprime in maniera collettiva: un’esteriorizzazione della nostra coscienza collettiva.

Lasciamoci alle spalle le visioni patriarcali e coloniali della tecnologia (che oscillano tra deliri d’onnipotenza e paranoie d’impotenza totale) e mettiamoci a lavorare sulla coscienza stessa. Siamo tutti in mutazione ma solo in pochi (coloro che sono stati additati come mostri, coloro la cui soggettività e i cui corpi sono stati pubblicamente segnalati come campi di sperimentazione e prove materiali della mutazione) ce ne rendiamo conto.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato su Libération.

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