17 dicembre 2017 12:07

Ogni evento festivo che impone un aumento di socialità mi provoca un’ansia inevitabile. Sulla scala della fobia e della vergogna, il mio compleanno occupa una posizione critica. L’idea che persone del mio gruppo (più o meno vicine) e persone di cui non sento parlare da anni mi facciano gli auguri, in modo più o meno espansivo, mi ha sempre infastidito.

Questo fenomeno si è aggravato da quando il caso ha voluto che il giorno del mio compleanno coincidesse con una giornata drammatica del 2001, da allora commemorata in tutto il mondo. Immagino non ci sia bisogno di precisare la data, perché la memoria associativa di chi legge lo avrà già fatto al mio posto. È per questo motivo che negli ultimi anni con i colleghi e le persone vicine a me ho tentato di sorvolare sulla data del mio compleanno e mi sono presentato, usando strategie poco convincenti, come completamente scollegato dalla catena sempre più implacabile delle reti di comunicazione circostanti.

È possibile che i festeggiamenti ci infastidiscano (non sono il solo a provare questo sentimento) perché il tempo della commemorazione occulta il tempo in divenire dell’evento. Il divenire, come affermano Deleuze e Guattari, non ha la stessa temporalità della storia. La storia si celebra. Il divenire si vive.

Tassonomia di eventi
Questo spiega perché in generale i festeggiamenti non coincidono con i momenti nella vita in cui si fa davvero un passo avanti. I festeggiamenti servono a ricordarsi di cose che altrimenti dimenticheremmo e a dimenticare cose di cui dovremmo ricordarci. La cronologia politica egemone impone un ordine della memoria per celebrare riti sociali che hanno ricevuto l’avallo e il riconoscimento da parte della collettività.

Per secoli, per esempio, la chiesa ha considerato i riti celebrativi delle nascite come feste pagane: le anime dei bambini nascevano macchiate dal peccato, e la prima festa doveva essere quella del battesimo. Si è dovuto aspettare che la celebrazione della nascita di Cristo fosse istituzionalizzata prima che i cristiani cominciassero a festeggiare il giorno della loro venuta al mondo.

Dal diciannovesimo secolo, in occidente è abitudine celebrare la nascita, il matrimonio e il decesso. L’ordine di questi festeggiamenti costituisce e definisce una tassonomia di eventi che distingue accuratamente quello che dobbiamo ricordare da quello che non merita la memoria, il memorabile dall’insignificante.

Il ritmo della commemorazione converte il tempo singolare di una vita in tempo normale: nasciamo, cresciamo, andiamo a scuola, ci sposiamo e moriamo. Quest’ultimo evento, la morte, presenta un vantaggio esclusivo, illustrato da un proverbio inventato sicuramente da qualcuno che condivideva la mia fobia per i festeggiamenti: “Almeno quando muori non devi celebrare la tua sepoltura”.

Le commemorazioni più belle sono quelle che celebrano le trasformazioni senza data di inizio né di scadenza

Può sembrare ingenuo affermare che non cominciamo a vivere nel giorno della nostra nascita. Gli atomi che formano il nostro corpo non sono stati creati nel momento del nostro concepimento, ma poco tempo dopo la nascita dell’universo, più o meno 15 miliardi di anni fa. Le istituzioni che ci permettono di esistere riconoscendoci o meno come esseri umani non sono state inventate nel giorno della nostra nascita, ma sono il prodotto di un lungo processo storico che risale a migliaia di anni fa.

Possiamo festeggiare il big bang? Chi oserebbe celebrare l’antropogenesi?
Su una scala temporale infinitamente più piccola, non cominciamo ad amare nel giorno del nostro matrimonio – anzi, forse è il contrario. Succede che un bambino non nato sia il nostro solo erede. Gli amori più importanti non possono essere celebrati. Moriamo molto prima (giorni, mesi, anni) della nostra data di morte certificata. A volte la morte non può essere accertata perché il corpo non viene ritrovato e non può essere sepolto. In questo caso non c’è letteralmente niente da celebrare. Privati dei riti sociali che meritano riconoscenza, questa nascita, questo amore, questa morte… spariscono dalla storia.

La mia seconda nascita
A novembre ho festeggiato, senza alcun rituale e senza aver bisogno di nascondere la data perché quasi nessuno la conosce, quella che potrebbe essere considerata come una seconda nascita. Era il primo anniversario del giorno in cui l’incarnazione della finzione politica “Paul” è stata legalmente e amministrativamente riconosciuta.

Il giorno in cui, come prevede la legge, è stato pubblicato il mio nuovo atto di nascita nel giornale locale della città in cui sono nato. È la seconda volta che una collettività sociale determinata ha aperto i suoi rituali di registrazione dell’umano e ha permesso che vi entrassi in quanto cittadino, cambiando il nome e il sesso che mi avevano attribuito il giorno – il famoso giorno che sono costretto a festeggiare – della mia prima nascita.

La data di questa seconda iscrizione che sfugge al rango delle celebrazioni esiste oggi in un luogo segreto, sotto la data certificata, visibile e festaggiabile, del compleanno ufficiale. Questa data, o piuttosto il lungo e complicato processo che questa data contiene e rappresenta, è tecnicamente “infesteggiabile” e, in questo senso, assolutamente indimenticabile.

Le commemorazioni più belle sono quelle che celebrano le rivoluzioni invisibili, le trasformazioni senza data di inizio né di scadenza. Chi festeggia l’erba quando cresce o il cielo quando cambia colore? Chi festeggia la lettura di un libro o la scoperta di un nuovo gesto? Chi celebra l’ultimo momento di felicità prima di una morte improvvisa? Dobbiamo dimenticare gli anniversari. Dobbiamo dimenticare i punti di riferimento e lasciar perdere le reliquie. Per festeggiare tutte le nostre altre nascite possibili.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano francese Libération.

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