03 ottobre 2016 09:59

È stato un fine settimana che ha detto tutto sulla crisi della socialdemocrazia. A Madrid, il Partito socialista spagnolo (Psoe) ha spinto il suo segretario, Pedro Sánchez, alle dimissioni perché non accettava che l’astensione della sinistra permettesse la formazione del governo conservatore di Mariano Rajoy. Promotore di questo colpo di mano, l’apparato socialista ha i suoi motivi, perché teme che il partito sia punito alle urne se gli spagnoli saranno stati costretti a votare per la terza volta in un anno e non vuole che il paese continui a sprofondare in una crisi pesantissima perché incapace di creare una maggioranza.

Sono motivazioni comprensibili, ma il risultato della decisione è che il Psoe perderà ancor più elettori a vantaggio della nuova sinistra di Podemos. Tutto questo è accaduto il 1 ottobre, mentre il 2 ottobre, nel Regno Unito, dove i conservatori erano riuniti in congresso, la prima ministra Theresa May ha potuto evitare di spiegare come intende gestire la Brexit perché l’opposizione laburista è talmente spaccata tra l’ala sinistra e l’ala centrista da lasciare la scena interamente alla destra. La sinistra britannica è del tutto assente.

Lo stesso 2 ottobre, in Francia, sul Journal du Dimanche, Alain Juppé ha nuovamente teso la mano ai “delusi dall’hollandismo”, come se il Partito socialista francese (Ps) non esistesse più, e a ben vedere non è detto che non sia così.

Le radici storiche
Ma non ci sono solo la Spagna, il Regno Unito e la Francia. Anche in Germania, in Italia e nei paesi scandinavi la sinistra ha perso molti elettori, e in generale questa forza che ha creato lo stato sociale è l’ombra di se stessa un po’ in tutta Europa.

Questa crisi ha radici storiche. La socialdemocrazia è nata negli anni venti, in Svezia, da una rinuncia ai miti rivoluzionari e dalla volontà di imporre al capitale l’applicazione di protezioni sociali, creando rapporti di forza politici organizzati da partiti operai appoggiati dai grandi sindacati.

Questa strategia ha funzionato e ha raggiunto il suo culmine nel dopoguerra, quando la ricostruzione ha assicurato abbondanza di posti di lavoro e la paura dell’Unione Sovietica ha spinto le classi più ricche ad accettare il compromesso sociale. Poi tutto è cambiato a partire dagli anni settanta. Ultimata la ricostruzione, la socialdemocrazia si è scontrata con la fine dell’occupazione piena e con un rapporto di forze non più favorevole agli operai. Negli anni ottanta la paura del comunismo è scomparsa con il crollo sovietico, mentre negli anni novanta una nuova rivoluzione della produzione ha smantellato le grandi industrie, fortezze operaie. Dopo trent’anni, la riduzione delle distanze ha permesso la delocalizzazione delle aziende, che oggi possono sfuggire alle leggi sociali europee.

La socialdemocrazia potrà ripristinare il rapporto di forze che l’ha sorretta in passato solo riproponendosi come forza pubblica su scala continentale, ma il paradosso è che i suoi elettori operai non vogliono sentir parlare dell’Europa, che associano (a torto) agli stravolgimenti storici di cui sono vittime. La crisi profonda della socialdemocrazia sembra dover durare ancora a lungo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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