10 febbraio 2017 10:05

È un “falso”, ha dichiarato il 9 febbraio il ministro degli esteri russo. Secondo il suo portavoce, l’ultimo rapporto di Amnesty international sulle prigioni del regime siriano sarebbe solo “una provocazione volta a buttare benzina sul fuoco in vista della fine del conflitto”, e la prova è che “questi numeri spaventosi sono il risultato di conteggi aritmetici sulla base di testimonianze anonime”.

Questi numeri sono effettivamente “spaventosi”, perché le testimonianze dirette e non anonime raccolte da Amnesty international hanno spinto l’organizzazione a concludere che nella sola prigione di Sednaya, a nord di Damasco, tra i 20 e i 50 detenuti sono stati impiccati ogni settimana tra il 2011 e il 2015. Questi detenuti non erano combattenti ma civili accusati di essere oppositori di Bashar al Assad. Prima della loro esecuzione erano stati sistematicamente torturati, e secondo Amnesty questa “politica di sterminio” continua ancora oggi in questo “mattatoio umano”.

Il rapporto è tanto più agghiacciante se consideriamo che prima della sua pubblicazione Bashar al Assad, a cui era stato chiesto se alcuni funzionari siriani avessero potuto essere accusati di crimini contro l’umanità e portati davanti alla Corte penale internazionale, aveva risposto che “abbiamo l’obbligo di difendere il nostro paese con tutti i mezzi e non prestiamo alcuna attenzione a questo tribunale né ad altre istituzioni internazionali”.

Barbarie di stato
Il presidente siriano non ha detto che non c’è alcun motivo di portare i suoi uomini davanti al tribunale dell’Aja, né si è difeso dalle accuse di tortura ed esecuzioni sommarie. Al contrario, ha detto soltanto che ai suoi occhi “tutti i mezzi sono leciti” e che se ne frega della giustizia internazionale. E questo atteggiamento è quello del vertice di un regime contro il quale Amnesty international non è l’unica a lanciare accuse.

L’8 febbraio alcuni investigatori delle Nazioni Unite hanno affermato che “la frequenza delle morti dei detenuti lascia pensare che il governo siriano sia responsabile di uno sterminio”. Dal luglio 2012 Human rights watch, un’altra grande organizzazione che difende i diritti umani, parla di un “arcipelago della tortura” in Siria e ha analizzato 27 centri di detenzione e diverse caserme ed edifici militari. Nel 2014 un ex fotografo della polizia militare siriana che si è rifugiato all’estero ha pubblicato 55mila foto di corpi di persone atrocemente seviziate dai carnefici di Assad.

Eppure niente di tutto ciò ha convinto la Russia della realtà di queste atrocità. “Circolare, non c’è niente da vedere”, ripete Mosca davanti a ogni rapporto. Ma se è talmente convinta che si tratti di calunnie, perché non accetta di aprire le porte delle prigioni del suo alleato siriano agli investigatori della corte penale e ai mezzi d’informazione?

Questo eviterebbe alle autorità russe di essere considerate in futuro complici di questa barbarie di stato.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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