18 dicembre 2014 16:45

Dopo Z. La guerra dei narcos, il giornalista Diego Enrique Osorno torna a parlare della frontiera nordorientale del Messico, che divide il Nuevo León e il Tamaulipas dagli Stati Uniti. Ma questa volta lo fa con un libro uscito solo in Italia grazie al lavoro sempre attento della casa editrice La Nuova Frontiera.

Un cowboy attraversa la frontiera in silenzio è forse il libro più personale di Osorno. È la storia di Gerónimo González Garza, suo zio sordo, che quarant’anni fa ha attraversato il confine per stabilirsi negli Stati Uniti. Garza è emigrato perché voleva semplicemente vivere e negli Stati Uniti i sordi erano meno discriminati. Ancora oggi la sua casa è a San Antonio, Texas, dove abita con la moglie e i due figli.

“L’idea di un libro suo mio zio è nata quattro anno fa”, mi spiega Osorno, di passaggio a Roma per partecipare alla fiera Più libri più liberi e a un forum sulle mafie organizzato dall’Auditorium Parco della musica.

“Un gruppo di amici che lavora in un’organizzazione impegnata a combattere le discriminazioni in Messico mi ha chiesto di scrivere una storia. Ci ho pensato a lungo, ma non mi veniva in mente niente, anche perché stavo lavorando al reportage sugli Zetas. Poi mi sono reso conto che mio zio, che accompagnavo spesso nei suoi viaggi attraverso la frontiera, poteva essere ‘la persona discriminata’ protagonista della mia storia. In realtà non lo avevo mai visto sotto questa luce: è sempre stato un punto di riferimento nella mia vita, ha una personalità forte, mi ha insegnato a montare a cavallo e ad aggiustare le macchine. L’ho sempre ammirato”.

Diego Osorno, 6 dicembre 2014. (Tania/A3/Contrasto)

E in effetti leggendo della vita nomade e avventurosa di González Garza la sua disabilità non viene mai percepita come un limite. Piuttosto il silenzio di quest’uomo, “taciturno per natura, anche nella lingua dei segni”, diventa la metafora di una zona del paese abbandonata dai mezzi d’informazione e teatro di una violenza che quasi nessuno ha il coraggio di raccontare.

Scrive Osorno: “In questi tempi di guerra la frontiera nordest del Messico non ha un linguaggio proprio. E senza linguaggio, la libertà è ancora più lontana. Il linguaggio è ciò che rende possibile il pensiero, segna la differenza tra ciò che è umano e ciò che non lo è. Il linguaggio riesce a decifrare i misteri. Ma la frontiera nordest non può esprimersi”. Anche la letteratura tace su questa parte del paese, una vallata pianeggiante, dove gli scontri sono più violenti che in altri stati (per esempio il Sinaloa, dov’è nato il narcotraffico) proprio perché non ci sono le montagne a proteggere o a dare rifugio ai gruppi armati. A differenza di Tijuana, di Ciudad Juárez e della zone di confine del Sonora e del Sinaloa, che sono state raccontate in tante pagine da giornalisti e scrittori, “è ancora sconosciuta la voce della frontiera nordest del Messico, quella dove sono nati gli Zetas e dove i quotidiani locali, in seguito al massacro di 72 migranti nell’agosto del 2010, dietro minaccia dei gruppi criminali, hanno ridotto al minimo la copertura giornalistica di uno dei più gravi crimini del paese”.

Osorno però questa realtà la racconta, prendendo le dovute precauzioni: “A volte devo travestirmi, perché la cosa più pericolosa da queste parti è essere identificato come straniero”, spiega. “Negli anni ho creato una rete d’informatori che mi aiutano a capire cosa succede nei vari paesi del Tamaulipas e del Nuevo León. Le spie della mafia sono ovunque, non si può entrare in un villaggio senza aver ricevuto il via libera. Molti giornalisti vengono uccisi così: i gruppi criminali li scambiano per agenti del governo e sicari dei cartelli rivali. Il mio migliore amico (anche lui giornalista) è stato sequestrato dal cartello del Golfo perché era stato scambiato per uno degli Zetas”.

Il Messico continua a essere uno dei paesi più pericolosi del mondo per i giornalisti. Più di ottanta reporter sono stati uccisi negli ultimi dieci anni e 17 sono scomparsi. Per cercare di affrontare il problema e rispondere alle pressioni sempre più forti della comunità internazionale, nel 2012 il governo messicano ha creato un meccanismo di protezione per le persone che si occupano di diritti umani e per i giornalisti.

“È meglio di niente, ma non funziona”, sostiene Osorno. “Quando un giornalista si sente minacciato, può chiedere di essere protetto. Il personale incaricato valuta la situazione ed eventualmente decide di assegnargli una scorta. Ma il meccanismo ha molte anomalie, anche perché a volte gli agenti incaricati di proteggere un reporter sono informatori della mafia. Da parte del governo non c’è una coscienza reale del problema: dal suo punto di vista, i giornalisti che si mettono in alcune questioni sbagliano. Il presidente Enrique Peña Nieto ha avuto fortuna, fino al 26 settembre”.

Nello stato di Guerrero, nella parte sudoccidentale del paese, il 26 settembre sono spariti 43 studenti della scuola normale rurale di Ayotzinapa. La versione ufficiale è questa: quel giorno la polizia di Iguala e Cocula ha attaccato un gruppo di studenti che stava organizzando una manifestazione per ricordare il massacro di Tlatelolco, avvenuto il 2 ottobre del 1968.

Tre ragazzi sono stati uccisi e 43 sono stati consegnati al gruppo criminale dei Guerreros unidos, che li avrebbe ammazzati e poi bruciati. A dare gli ordini alla polizia, secondo questa versione dei fatti, è stato il sindaco di Iguala José Luis Abarca, oggi in carcere.

Diego Osorno non crede alla versione del governo, come non ci credono molti giornalisti e cittadini messicani che, per la prima volta, puntano il dito contro lo stato: “Il sequestro degli studenti è avvenuto a un chilometro dal 27esimo battaglione dell’esercito di Iguala, uno dei più antichi e importanti del paese. Il governo federale ha tardato quattordici giorni prima di cominciare a cercare gli studenti e all’inizio ha detto che era solo un problema locale. Non è possibile che nessuno, nell’esercito, si sia accorto di quello che stava succedendo, praticamente sotto i loro occhi”.

Rispetto al movimento per la pace guidato dal poeta e attivista Javier Sicilia, “che voleva soprattutto commuovere, sensibilizzare la popolazione e dare visibilità alle vittime”, la protesta nata in Messico dopo gli eventi del 26 settembre segna una svolta importante: “È la prima volta che si segnala lo stato come responsabile”, afferma Osorno.

“Il paese vuole cercare i colpevoli, perché la violenza non dipende solo dai cartelli della droga. Anche l’esercito e il governo hanno la loro parte di responsabilità. Finalmente la società messicana si sta facendo delle domande più complesse, non so dove può portare tutto questo, ma è importante discutere di cosa sia lo stato in questo paese”.

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