09 aprile 2015 21:16

Il 10 e l’11 aprile si apre a Panamá il settimo vertice delle Americhe, la riunione a cui dal 1994 partecipano gli oltre trenta capi di stato e di governo del continente con l’obiettivo di mettere a punto una strategia comune per gestire i problemi della regione. Quest’anno, per la prima volta, Cuba è tra i paesi invitati. E anche se la Casa Bianca ha già fatto sapere che non è in programma un incontro privato tra il presidente statunitense Barack Obama e il suo omologo cubano Raúl Castro, non è escluso che i due leader s’incontrino al margine degli eventi ufficiali.

Come ricorda Jon Lee Anderson sul New Yorker, negli ultimi sessant’anni non è capitato spesso che i presidenti di Stati Uniti e Cuba abbiano condiviso lo stesso palcoscenico. Nel 1958 Dwight D. Eisenhower e il dittatore cubano Fulgencio Batista si incontrarono proprio a Panamá, Fidel Castro e Bill Clinton s’incrociarono alle Nazioni Unite nel 2000 e Barack Obama e Raúl Castro si sono stretti la mano nel 2013 a Johannesburg, durante il funerale di Nelson Mandela.

Questa volta, però, il loro incontro al vertice delle Americhe ha un’importanza enorme, perché potrebbe segnare un ulteriore passo avanti nella distensione dei rapporti bilaterali. Il 17 dicembre 2014 Obama e Castro hanno annunciato a sorpresa la ripresa della relazioni diplomatiche interrotte da più di cinquant’anni. E in questi quattro mesi il dialogo tra Washington e l’Avana è andato avanti: le due delegazioni si sono incontrate per discutere d’immigrazione, diritti umani e questioni economiche, ma sul tavolo dei negoziati rimangono ancora molti ostacoli. Primo fra tutti, la rimozione di Cuba dalla lista del dipartimento di stato americano dei paesi che sponsorizzano il terrorismo, in cui è inserita dal 1982. Sembra che ci siano serie possibilità che a Panamá Obama annunci che l’Avana sarà tolta dalla lista, cosa che spianerebbe la strada alla piena normalizzazione dei rapporti tra i due paesi.

L’altra incognita è il ruolo del Venezuela di Nicolás Maduro, ago della bilancia tra Washington e l’Avana. I rapporti con gli Stati Uniti sono precipitati il 9 marzo, quando Obama ha imposto delle sanzioni contro sette funzionari venezuelani accusati di aver violato i diritti umani durante le manifestazioni studentesche del 2014 contro il governo. Nel preambolo al decreto che ha accompagnato le sanzioni, il Venezuela è descritto come “una minaccia insolita e straordinaria per la sicurezza nazionale e per la politica estera degli Stati Uniti”.

Questa definizione, che secondo Washington fa parte del linguaggio burocratico usato in questo tipo di documenti, ha fatto infuriare Maduro. Il successore di Hugo Chávez, alle prese con le gravi difficoltà economiche del suo paese, ha affilato la retorica antimperialista e ha messo in guardia i cittadini da un’imminente aggressione statunitense. Maduro non si è limitato a denunciare l’ingerenza di Washington, ma ha raccolto otto milioni di firme per chiedere agli Stati Uniti di abrogare le sanzioni e potrebbe portare questi reclami davanti ai capi di stato riuniti a Panamá. L’Ecuador, la Bolivia e l’Argentina, e ovviamente Cuba, hanno espresso la loro solidarietà a Caracas. Cuba si trova quindi nel mezzo: dipende economicamente dal Venezuela, che le fornisce petrolio a prezzi vantaggiosi, ma è nel pieno di importanti trattative diplomatiche con l’“impero”.

Infine c’è l’incognita dei dissidenti cubani, che chiedono agli Stati Uniti più impegno a favore dei diritti civili nell’isola e di un processo politico che porti presto a elezioni libere. Intanto a Panamá ci sono già stati i primi intoppi: l’8 aprile una delegazione del governo cubano ha abbandonato un incontro con la società civile in segno di protesta per la presenza di alcuni anticastristi

Qualunque tono assuma il dibattito, la partita che si gioca il 10 e l’11 aprile a Panamá è delicata. Tutti gli occhi sono puntati su Obama, che dovrà costruire ponti con Cuba senza far salire la tensione con il Venezuela e i suoi alleati nella regione.

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