02 febbraio 2017 12:10

Nel Lower west side di Manhattan c’è un fazzoletto di terra che un secolo fa era noto come “Little Syria”. Tra la seconda metà dell’ottocento e la prima metà del novecento quest’angolo di New York divenne casa e rifugio per la comunità di immigrati arabi, provenienti per la maggior parte dalla regione sirolibanese. In fuga dalla repressione degli ottomani e dalla carestia che aveva colpito i futuri stati di Siria e Libano provocando il crollo dell’industria del baco da seta, uomini, donne e intere famiglie si misero in viaggio per l’America. Non tutti rimasero in Nordamerica: molti si spinsero più a sud per lavorare nei campi di cotone dell’America Latina. Le loro storie sono state raccontate in modo sublime nel romanzo Come fili di seta dello scrittore libanese Rabee Jaber.

Little Syria era abitata da siriani, libanesi, giordani e palestinesi, che riempirono le strade di negozi, caffè e ristoranti con la doppia insegna in inglese e in arabo, dando vita a una comunità che oggi, secondo i dati dell’Arab american institute, conta più di 3,5 milioni di persone. Tra loro, all’inizio del novecento, spiccavano due letterati di prim’ordine: il poeta Ameen Rihani, autore nel 1911 del primo romanzo araboamericano (Il libro di Khalid, pubblicato in Italia da Mesogea) e il suo ben più noto amico e collega Khalil Gibran, autore del bestseller Il profeta, pubblicato in inglese a New York nel 1923. Intorno a loro si creò un cenacolo di artisti e letterati che fondarono riviste, scrissero libri e diedero vita al movimento della “letteratura della migrazione”, che ha svolto un ruolo fondamentale nella storia della letteratura araba moderna.

I casi di visti negati a scrittori e ad artisti arabi sono stati numerosi anche in Italia

Se il Muslim ban di Donald Trump fosse entrato in vigore ai tempi di Rihani e di Gibran, il gruppo di letterati della migrazione non sarebbe esistito. Così come non sarebbe stato scritto Il profeta, ancora oggi uno dei testi più letti, amati e tradotti di tutto il mondo. Il Muslim ban, così volutamente discriminatorio, colpisce duramente il mondo della cultura araba, già pesantemente danneggiato dai numerosi casi di visti negati a scrittori, artisti, musicisti e disegnatori arabi o mediorientali invitati a festival ed eventi culturali negli Stati Uniti.

Vita dura
Sul suo blog dedicato alla letteratura araba, la giornalista statunitense Marcia L. Qualey ricorda i casi più eclatanti di artisti arabi a cui è stato negato l’ingresso negli Stati Uniti: nel 2015 lo scrittore giordano Hisham Bustani non ha potuto promuovere il suo libro perché gli era stato trattenuto il visto per ulteriori verifiche. Lo stesso era accaduto nel 2012 al poeta palestinese Ghassan Zaqtan, a cui fu permesso di partecipare al tour del suo libro solo dopo che si era messa in moto una protesta.

“Per anni gli artisti arabi hanno avuto vita dura quando si trattava di farli venire negli Stati Uniti”, spiega Qualey. Così “il pubblico americano non li conosce e perciò non gli si è affezionato. E questa è di per sé una forma di fortissima limitazione al dialogo e allo sviluppo artistico”.

Se nel 2016 fosse già stato in vigore il divieto, lo scrittore siriano Khaled Khalifa (Elogio dell’odio, Bompiani), più volte minacciato e vittima di violenza fisica da parte del regime di Bashar al Assad, non avrebbe potuto trascorrere nove mesi negli Stati Uniti come “writer in residence”. E forse il Financial Times non avrebbe inserito il suo romanzo Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città tra i migliori libri del 2016.

I casi di visti negati a scrittori e ad artisti arabi sono stati numerosi anche in Italia. Gli organizzatori di eventi e festival culturali italiani che prevedevano la partecipazione di ospiti dai paesi arabi hanno dovuto faticare non poco per ottenere i visti, che spesso e volentieri sono arrivati solo all’ultimo minuto.

Boicottaggi da tutto il mondo
Il bando di Trump somiglia tanto a quello “sguardo degli altri” di cui parlava l’intellettuale sirolibanese Samir Kassir nel libro L’infelicità araba. Paralizzante e pieno di certezza, lo sguardo degli altri (noi? l’occidente? gli Stati Uniti?) spesso “ti ferma alle frontiere. Bisogna aver avuto per una volta il passaporto di uno stato canaglia per sapere quanto può avere di definitivo uno sguardo di quel genere”.

Non sappiamo cosa succederà nei prossimi tre mesi e se il bando sarà prorogato. Di certo ha avuto già effetti negativi. Il regista iraniano Asghar Farhadi ha annunciato ufficialmente che non parteciperà alla cerimonia degli Oscar. Il pluripremiato scrittore iracheno Hassan Blasim (Il matto di piazza della Libertà, Il Sirente) ha detto di non avere intenzione di rimettere piede negli Stati Uniti. Anche la scrittrice italiana e somala Igiaba Scego, che sarebbe dovuta andare ad aprile negli Stati Uniti per una borsa di studio ha rimandato il suo viaggio a causa del bando, che interesserà un gran numero di festival, reading letterari, presentazioni di libri e lanci di nuove traduzioni.

Gli artisti arabi e araboamericani, eredi di quella Little Syria di un secolo fa, hanno denunciato su Twitter la discriminazione che hanno subìto. Allo stesso tempo mettono in mostra l’orgoglio di essere arabi, siriani, musulmani, americani. Un tutt’uno indifferenziato, come sono le identità multiple di oggi e che nell’ultimo secolo hanno reso grande l’America.

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