20 novembre 2015 12:58

Aiyana Lucas ha 8 anni e ha subìto tre trapianti cardiaci. A pochi mesi di vita la madre si accorge che la figlia, poco più che neonata, non sta bene. I medici le diagnosticano un grave problema cardiaco. Dopo sei mesi di attesa, riceve finalmente un cuore. Il trapianto va bene. Sette anni dopo però Aiyana ha bisogno di un altro cuore. Altri sei mesi di attesa fino a quando un altro organo è disponibile. Ma dopo pochi battiti, i medici si accorgono che qualcosa non funziona. Aiyana ha bisogno di un macchinario che faccia funzionare il suo cuore e i suoi polmoni. Solo 48 ore più tardi un nuovo cuore è disponibile e Jonathan Chen, il direttore di chirurgia cardiaca al Seattle hospital, decide di rischiare e di eseguire un terzo trapianto, cioè il secondo nel giro di poche ore.

Aiyana ora sta bene, ma la sua storia solleva molte domande. Quali dovrebbero essere i criteri di attesa e soprattutto di assegnazione degli organi? Come si decide a chi va un organo? E soprattutto, è giusto destinare tre organi a uno stesso individuo, lasciando gli altri ad aspettare, magari contribuendo al peggioramento del quadro clinico o addirittura alla morte?

La discussione sugli organi appare più fredda di quella sull’aborto o sull’eutanasia, ma nasconde alcuni problemi morali di non facile soluzione, come accade ogni volta che un bene è richiesto più di quanto sia disponibile.

Non bisogna ignorare le domande impossibili

Qualche settimana fa, Art Caplan (della divisione etica del Langone Medical Center presso la New York University) ha discusso il caso di Aiyana sollevando alcune di queste domande impossibili, la cui soluzione però non può essere quella di ignorarle. È giusto che qualcuno riceva tre cuori, considerando anche che le probabilità di successo di un secondo o terzo tentativo diminuiscono significativamente e che molti altri avrebbero bisogno di un cuore?

È ovvio che i medici di Aiyana abbiano cercato di darle un nuovo cuore e un altro ancora, ma Caplan ricorda che c’è un problema morale ingombrante: mentre il secondo o terzo cuore viene usato per Aiyana, c’è qualcun altro che aspetta e le cui condizioni, nell’attesa, potrebbero deteriorarsi o rendere inutile il trapianto.

Caplan è consapevole che non si possa chiedere ai medici di abbandonare il proprio paziente. Ma forse il sistema di attesa e ricezione degli organi potrebbe rispettare un principio del genere: “Dopo un certo numero di organi ricevuti, non possiamo più dartene. Dobbiamo dare a qualcun altro la possibilità di sopravvivere”.

Le reazioni alle affermazioni di Caplan sono state molte, e qualche medico si è molto arrabbiato. Ma alcuni commentatori hanno aggiunto considerazioni sensate.

È il caso di un cardiologo, che ha ricordato come chi non ha ricevuto organi dovrebbe in genere avere più diritto di chi già è stato sottoposto a un trapianto. Accadrebbe forse qualcosa di simile per un farmaco disponibile in poche dosi: una volta che è stato somministrato a qualcuno, il prossimo dovrebbe andare a un’altra persona.

Come si fa a dire a un paziente che non ci sono più organi per lui?

Ma siamo sicuri che una simile regola generale sarebbe la scelta giusta? O non sarebbe forse meglio lasciare la decisione ai medici caso per caso? E come si fa a dire a un paziente che non ci sono più organi per lui?

Le domande sono molte e molto complicate. Succede quando le risorse sono limitate e devono essere stabiliti dei criteri per l’attesa e per chi viene prima: case popolari, assegni di disoccupazione, riduzione sui servizi.

Si potrebbe pensare: chi arriva prima, prima riceve l’organo (o il bene limitato). Ma ci sono altre considerazioni da fare: siamo sicuri che sarebbe il criterio giusto nel caso in cui X, arrivato prima, sta meglio di Y, arrivato dopo, e quindi sarebbe in grado di aspettare senza troppi rischi mentre Y morirebbe nel giro di qualche giorno? E come vanno considerate le percentuali di successo dell’intervento? Se Z ha bisogno di un cuore ma ha poche possibilità di sopravvivenza, dovremmo sprecare quell’organo per lui? E se ha bisogno di un trapianto perché ha avuto uno stile di vita che può aver causato quel bisogno? Dobbiamo valutare le eventuali “responsabilità” e in che modo? L’età deve essere un elemento da considerare, a parità di tutti gli altri?

E ancora (per i trapianti di reni o i trapianti parziali di fegato, per esempio): bisognerebbe incentivare la donazione da viventi o permettere la commercializzazione degli organi? Oppure si dovrebbe poter decidere di donare i propri organi solo per altruismo?

La valutazione clinica del ricevente è ovviamente fondamentale, ma non è in grado di risolvere tutte le questioni – così come l’accertamento delle capacità di capire le conseguenze della propria decisione per il donatore. Il secondo passo sarà però inevitabilmente una decisione morale, e ogni criterio che sceglieremo avrà qualche effetto collaterale e sgradito – c’è un aspetto sgradito in ogni disposizione di risorse limitate.

Ogni criterio può forse solo ambire a essere meno peggiore di un altro o il meno peggiore, ma mai quello ideale. Almeno finché lo squilibrio tra la domanda e l’offerta sarà così profondo.

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