16 febbraio 2017 11:55

E così il World press photo, a oggi il premio fotogiornalistico più prestigioso, è stato assegnato al fotografo turco Burhan Ozbilici dell’Associated press. La foto è stata scattata qualche istante dopo che Mevlüt Mert Altıntaş, un poliziotto turco, ha ucciso a sangue freddo l’ambasciatore russo in Turchia Andrej Karlov, durante l’inaugurazione di una mostra il 19 dicembre 2016 ad Ankara. L’immagine mostra l’assassino urlante, con il dito puntato verso l’alto, mentre il corpo della vittima giace al suolo.

Per molto tempo il World press photo ha premiato le fotografie che privilegiavano l’importanza “oggettiva” dell’evento, spesso a scapito di un livello davvero alto dell’immagine fotografica in sé. Si trattava di foto piuttosto tradizionali, scattate nel rispetto delle convenzioni di un fotogiornalismo erede degli anni cinquanta. Tutto questo è stato molto criticato e ha aperto la strada ad altre estetiche, nel campo sia della fotografia documentaria sia di quella “costruita”, scatenando infinite polemiche sulla questione dei limiti accettabili del fotogiornalismo, una questione ostacolata dall’ossessione irraggiungibile della verità della fotografia.

L’immagine premiata quest’anno provoca una strana sensazione. Sicuramente racconta un evento drammatico importante, che simboleggia una situazione internazionale molto tesa legata all’onnipresente pericolo terroristico, in cui il ruolo della Turchia non è indifferente. Ma visivamente, ci propone anche un ritorno all’istantanea di news, alla grande tradizione del momento decisivo.

Inoltre può essere letta come una perfetta finzione: luce da sala espositiva, un’illuminazione quasi cinematografica che rivela la scena, il personaggio principale, faccia da duro, ben vestito, elegante, determinato, un perfetto attore (starebbe bene in un film di serie b) che incarna ciò che vuole essere, un eroe. E la fotografia gli permette di diventarlo. Tanto che la scena, visivamente, non appare molto diversa da quella delle foto che Sarker Protick ha scattato sui set dei film dell’industria cinematografica di Dhallywood, in Bangladesh. Tranne che nel caso di Protick si trattava di finzione, di un genere ben preciso, e il fotografo ha saputo prendere la giusta distanza dall’azione, con una bella dose d’ironia.

Nel caso della foto premiata al World press photo, Ozbilici, a prescindere dal suo talento per l’inquadratura e per il momento dello scatto, si ritrova chiaramente a fare da tramite tra l’attentatore e il pubblico. Il suo mestiere di fotografo lo ha naturalmente spinto a scattare.

Un’immagine del genere deve essere pubblicata, cercando di trovare il modo per sottolineare le sue problematiche e il contesto. L’attentatore non ha scelto quella situazione solo per ragioni pratiche: sapeva che i giornalisti sarebbero stati presenti. Una bella occasione, che avrebbe fatto da cassa di risonanza per la sua azione. Anche a costo di far apparire un evento drammatico come una scena di finzione quando la notizia non è più di attualità.

La mancanza di distanza – cioè la presa di distanza dall’evento attraverso le scelte visive – confina con la connivenza, anche se non c’è alcuna volontà di questo tipo da parte del fotografo, e pone la questione della responsabilità che l’uso di questo tipo di immagini sui mezzi d’informazione presuppone. È chiaro comunque che, isolata e fuori del suo contesto emozionale e fattuale, celebrata e premiata, sembra stranamente l’estratto di un film a cui daremmo il premio del miglior documento d’informazione.

Che significato bisogna dare a questo premio? Probabilmente l’affermazione dell’attrazione senza limiti per quello che è spettacolare. Con il rischio, a cui evidentemente non si è sfuggiti, di trasformare definitivamente in eroe un assassino che non aspettava altro.

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