11 gennaio 2015 17:59

Al teatro Argentina di Roma sono da poco andati in scena due Natale in casa Cupiello. Il primo con la regia di Antonio Latella per un mese circa (dal 5 dicembre al 1 gennaio), il secondo diretto e interpretato dal solo Fausto Russo Alesi per due giorni (il 3 e il 4 gennaio).

La trama della commedia (del 1931) probabilmente la conoscete. Due giorni prima di Natale, a Napoli, Luca Cupiello si sveglia con l’ossessione di dover costruire il presepe, segno di un’unità familiare che invece si sta disgregando davanti ai suoi occhi senza che lui se renda conto. In casa, la moglie Concetta tollera le sue fisime; il figlio Tommasino, mammone, imbelle, lo sfotte (“Nun me piace ’o presepe, voglio la zuppa ’e latte”); suo fratello Pasqualino si arrabbia perché il nipote gli ruba i vestiti. Il motore del dramma però è l’altra figlia, Ninuccia, sposata con Nicolino, ma innamorata di Vittorio. La verità verrà fuori in maniera esplosiva proprio la notte della vigilia, i due rivali si scontreranno, e il colpo sarà fatale, tanto da portare Luca prima al delirio e poi alla morte tre giorni dopo Natale.

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Lo spettacolo di Latella ha avuto una gran quantità di recensioni, ha aperto un dibattito tra critici su cosa bisogna considerare oggi teatro sperimentale e cosa invece teatro popolare, ha ricevuto reazioni contrastanti (pubblico entusiasta e pubblico irritato che lascia la sala dopo venti minuti). Quello di Alesi non ha riscosso tutta questa attenzione, almeno a Roma ha incuriosito pochi spettatori, che però si sono esaltati per la sua incontestabile bravura.

Come erano questi due spettacoli

Il Natale di Latella prende i tre atti atti del testo e ne fa quasi tre spettacoli distinti: nel primo gli attori sono in fila sul boccascena e, quasi immobili, “dicono” tutto il testo comprese le didascalie; nel secondo invece si muovono moltissimo in un palco senza scenografia riempito di oggetti simbolici con cui interagiscono come se fossero in un sogno (un carretto, dei giganteschi animali di pezza, una luce scenica montata su un faro…); nel terzo la scena torna a farsi quasi pittorica e il dramma diventa un melodramma: gli attori cantano a mo’ di opera e nel finale si trasformano in un quadro vivente che rappresenta proprio un presepio.

Nel suo Natale Alesi interpreta invece tutti i personaggi, Luca, Concetta, Tommasino… dando a ognuno una voce e una postura: in una scenografia minimale, investendo tutto nelle sue qualità attoriali.

In sintesi: il primo è un allestimento ambizioso/pretenzioso, cerebrale, con attori quasi tutti bravissimi (straordinari Monica Piseddu e Lino Musella), e però penalizzati dalla regia, che schifa quel realismo che in genere associamo a Eduardo, e cerca una visione simbolica a tutti i costi; il secondo è uno spettacolo fuori dal comune, una prova d’attore eccezionale, che utilizza mimetismo ed empatia.

Sia Latella sia Alesi sono stati chiamati a rileggere Natale in casa Cupiello dal Teatro di Roma perché si festeggiava il trentennale della morte di Eduardo De Filippo. Latella in un’intervista per il Mattino del 5 novembre confessava di non conoscere Eduardo (“Sì, perché è proprio partendo così che sono riuscito a non farmi condizionare dal testo e da quello che lui ne faceva”), Alesi invece nel presentare il testo se ne dichiarava ossessionato (“Da diversi anni pensavo di portare in scena Eduardo e questo testo in particolare. Una sfida, senza dubbio, poiché è la commedia più famosa di Eduardo, quella, soprattutto, che la versione televisiva del 1977 ha consegnato alla memoria collettiva in un’edizione di riferimento imprescindibile”).

Quella di Latella è proprio una produzione del teatro di Roma, mentre quella di Alesi è stata pensata insieme al Piccolo di Milano.

Questo confronto ovviamente non è utile di per sé quanto per riflettere su un po’ di questioni: cosa vuol dire mettere in scena un testo classico oggi, un testo canonico del teatro italiano contemporaneo, cosa significa cimentarsi con la tradizione, che rapporto cercare con il pubblico.

Quali sono le questioni che interessano ai critici di teatro oggi

I critici che hanno recensito lo spettacolo di Latella, ne hanno parlato in modo abbastanza elogiativo, con immagini anche gonfie di quella retorica un po’ carica e lapidaria che sembra tipica della critica teatrale. Da Franco Cordelli (“Il presente insidiato dalla vita è diventato infine arte”) a Rodolfo Di Gianmarco (“Spettacolo di tumultuosa creatività, di appassionati apporti, di geniali trasposizioni”), da Renato Palazzi (“È uno spettacolo denso, possente, ma ciò che deve dire lo dice nel suo insieme, nel clima generale di pessimismo che evoca, in quel furore senza tregua e senza spiragli di redenzione, in quella rabbia spinta quasi alla violenza, non nei singoli dettagli, che possono essere illuminanti o discutibili, ma non influiscono davvero”) a Giuseppe Di Stefano (“Spettacolo corale di grande intensità, di appassionata drammaturgia e di encomiabile, geniale creatività”), fino anche a quelli più scettici – Gianfranco Capitta, Masolino D’Amico o Rita Sala – non hanno potuto fare a meno di riconoscere lo sforzo prometeico di Latella di creare uno spettacolo tutto fitto di simbologie e rimandi.

Per fare degli esempi: nel secondo atto – la vigilia, la preparazione della cena – Concetta trasporta un carretto come la Madre Coraggio di Brecht; nel terzo atto il dottore (il contralto Maurizio Rippa) venuto a visitare il moribondo Luca intona “La calunnia è un venticello” dal Barbiere di Siviglia di Rossini.

Cosa c’entra questo con la scena immaginata da Eduardo? Tutto? Oppure niente?

Tra l’altro, Latella insieme a Linda Dalisi si prende un paio di libertà di riscrittura drammaturgica non da poco: mostra una scena di stupro nel secondo atto e soprattutto nell’ultima scena fa soffocare con un cuscino Luca moribondo dal figlio Tommasino.

È che a rileggersi vecchie critiche, l’idea di teatro di Eduardo sembra cercare qualcosa di esattamente opposto. Ecco come Cesare Garboli recensiva la sua Natale in casa Cupiello sul Corriere della Sera, nel 1976.

Eduardo uccide il copione e lo fa rinascere, improvvisando, salivando le battute e rallentando i ritmi degli “show” fino a “non recitare”, pago del teatro che si manifesta ugualmente, radiosamente, nella sua taciturna presenza. Eccolo compiere i suoi piccoli riti. Si specchia nella commedia, si veste, si lava, si pettina. Affida a muti e insignificanti gesti quotidiani la grande elegia di se stesso. Così potremmo incontrarlo per strada, così ci accoglierebbe in casa sua, il volto torturato da rughe simili a cicatrici, le palpebre pesanti abbassate dalla tristezza o da un sonno che è piuttosto una mortale sapienza di vita. Così ogni volta il grande attore si toglie la maschera che lo fa esistere. Ogni volta che sale sul palcoscenico, Eduardo uccide la recitazione. Non è il suo talento ad impressionarci. È la sua natura di attore senza tempo, di superstite e organico simbolo del teatro.

Certo, come confrontarsi con un mostro sacro come Eduardo? Come potergli dare vita, tradire, reinventarlo? Quella di Latella è forse una lettura troppo sperimentale? Ma cosa vuol dire troppo sperimentale nel 2015? Su questo genere di interrogativi si è innestata una corposa discussione su Del teatro. Il critico Antonio Audino ha argomentato in questo modo il suo scetticismo:

A mio avviso collocare uno spettacolo come Natale in casa Cupiello per la regia di Antonio Latella all’Argentina mi sembra un clamoroso errore strategico, soprattutto per la lunga tenitura che gli è stata affidata e per la pubblicità diffusa in ogni luogo. Non è il caso in questa sede di sottilizzare sul valore o meno dello spettacolo, ma comunque è innegabile che si tratti di un’operazione ardita che richiede attenzione e che presuppone una profonda conoscenza del testo per essere apprezzata in pieno, insomma si tratta di quello che può essere definito come un teatro fortemente sperimentale.

Ora una collocazione adeguata in un teatro con una marcata vocazione alla ricerca, come ad esempio l’India, significherebbe fornire una precisa indicazione allo spettatore che può, se vuole, confrontarsi in quella sede con linguaggi innovativi e con operazioni di taglio particolare. Molto del pubblico che in questi giorni affolla l’Argentina rimane invece smarrito, perché immaginava di trovarsi davanti ad una lettura di stampo più tradizionale, ed è evidente che lo smarrimento possa trasformarsi in una forma di rifiuto non solo per lo spettacolo ma in generale per il teatro di oggi.

Credo che il teatro abbia oggi più che mai bisogno di un contesto, di una riconoscibilità, di indicazioni chiare che avvicinino anziché allontanare, non certo di recinti o steccati, tantomeno di divisioni o di ghetti, ma in una città come Roma dove ormai da anni regna la più totale confusione, in cui la comunicazione teatrale è cosa di pochi per pochi, sarebbe certo il caso di fare chiarezza, di creare zone diverse, di tener conto che il pubblico non è tutto uguale e che può esistere uno spettatore con gusti meno sofisticati ed estremi del côté intellettual-studentesco che sembra ormai a molti operatori l’unico “target” possibile, e che comunque questo spettatore meno colto o avvertito ha diritto a spettacoli di alto livello che non siano becere forme di intrattenimento ma che non presuppongano neppure una laurea al Dams o una conoscenza approfondita degli ultimi cinquant’anni di vita teatrale in Europa e nel mondo.

Renato Palazzi e Anna Bandettini gli hanno risposto: ma su, non mettiamo recinti, non distinguiamo ancora tra sperimentale e non sperimentale! Antonio Latella meriterebbe la direzione di un teatro stabile! Riconosciamo che ancora oggi si può fare un grande teatro di regia!

Ecco un punto: il teatro di regia. Cos’è? Da anni in Italia si parla della crisi se non della fine del teatro di regia. Dove teatro di regia indicherebbe una lunga stagione della storia del teatro in cui spettava al regista costruire delle grandi strutture, spesso imponendo la sua visione sulla lettura del testo o sugli attori. Da Giorgio Strehler a Luca Ronconi fino a Massimo Castri: quel modello non esiste più, sostiene per esempio Franco Cordelli, perché i soldi per le grandi produzioni spesso non ci sono, ma soprattutto non sono più possibili le operazioni intellettuali di questo tipo perché il pubblico, fondamentalmente, si sarebbe instupidito.

La pensa all’opposto un regista come Valerio Binasco, considerato tra i più interessanti in Italia. In un’intervista di ben dieci anni fa si diceva già stufo di questa nostalgia.

Chiamo teatro di regia un tipo particolare di spettacolo dove il regista dice agli attori come vanno dette le battute, come vanno messe le mani, cosa vuol dire in assoluto il testo che stanno recitando, e decide tutto a priori su basi critiche, letterarie, culturali: quali comportamenti, quali colori, quali suoni, quali spazi corrispondano all’umanità cui sta cercando di dare testimonianza sul palcoscenico. Il teatro di regia, quando corrisponde a questa descrizione, non è altro che critica in movimento. Non ho niente contro la critica, ma penso che debba stare ferma. Che debba parlare nel pensiero, e debba usare parole intime e riflessione, non allegorie umane.

Questo tipo di sensazione, di trovarsi di fronte a un cervello o a un inconscio del regista invece di immergersi in un rito, è ciò che provoca lo spettacolo di Latella. Può risultare un’esperienza affascinante o respingente, ma a quel punto Eduardo finisce con l’essere un pretesto.

La mia tesi sul teatro italiano a partire dai due Natale

Il teatro di regia – quest’idea di teatro di regia – spesso mi pare ridursi a una specie di regola non scritta: gli attori devono fare altro rispetto a quello che dice il testo.

Che lo facciano correndo in scena o recitando in modo brechtiano fa poca differenza. Nel Natale di Latella, Luca per tutto il tempo recita agitando la mano nell’aria come se stesse scrivendo su un foglio immaginario il testo che al tempo stesso declama. Ora – capite – anche se uno coglie il non difficile senso metaforico, si chiede: ma perché? Come si chiede perché quando i personaggi all’unisono recitano non solo le didascalie del testo, ma perfino gli accenti (“Grave!”, “Acuto!”): è per dare ritmo? è per destrutturare? O ancora: perché per interpretare Luca è stato scelto Francesco Manetti, un attore toscano, che rende l’italo-napoletano di Eduardo come una specie di lingua estranea a se stesso, se non addirittura una caricatura?

Se uno spettatore non conosce il testo, in uno spettacolo che pure lo rilegge così integralmente, cosa recepisce? Si può pensare una messa in scena inventiva ma al tempo stesso essere al servizio del testo e del pubblico invece di prevaricarlo?

Direi di sì. Fausto Russo Alesi, per esempio, lo fa. Come? Anche lui recita parti della didascalia ma lo fa per spiegare e non per confondere, recupera l’italiano-dialetto dando a ogni personaggio un’inflessione, ricava il ritmo dalle voci e non lo impone dall’alto, lavora sul ritmo soprattutto attraverso rallentamenti e ripetizioni (per dare corpo all’indolenza metafisica dei Cupiello), utilizza/omaggia la messa in scena eduardiana come un sottotesto sempre implicito (la sua Concetta è una Pupella Maggio diventata un cartoon; invece in Latella c’è una registrazione ossessiva fuori campo della voce di Eduardo che ripete: “Mo’ miettete a fa’ ’o presepio n’ata vota…”). Il risultato del Natale di Alesi qual è? Che dopo un po’ uno si scorda di tutto e riesce a immaginare. Il risultato del Natale di Latella è guardare il palco e restare consapevoli: sentirsi intelligenti e non emozionati.

Ma questo non è un tema di poco conto. Chiunque vada a teatro anche una sola volta all’anno se ne sarà accorto: è sempre più complicato trovare spettacoli che siano popolari e innovativi. Da una parte c’è un teatro fatto di viete messe in scena per abbonati e matinée scolastiche o commediole che sembrano le fotocopie di brutti prodotti televisivi. Dall’altra c’è un teatro che campa per gli addetti ai lavori: per un pubblico di teatranti, per i critici, in cui in pratica gli attori s’invertono con il pubblico a giorni alterni. Ognuno di questi mondi ha la sua economia, le sue regole non scritte, i suoi riferimenti. Sono due mondi praticamente distinti, reciprocamente impenetrabili.

La sfida del Teatro di Roma diretto da Calbi di diventare un teatro nazionale (una nuova figura di teatro che andrà a sostituire in futuro quella degli stabili) sta proprio nel cercare di abitare una zona intermedia tra questi due mondi. Evviva, quindi. Latella e Alesi che rileggono Eduardo sono stati due buoni esperimenti. Il primo non è riuscito, il secondo per fortuna sì.

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