07 luglio 2015 10:04

Matteo Orfini, presidente del Partito democratico, non fa proclami, non ha la battuta pronta, non usa espressioni enfatiche, non ha la parlantina, non cerca la prima fila. Ma nelle ultime settimane, invece, si è ritrovato al centro dell’attenzione della politica romana e nazionale.

Chiamato a gestire la complicata questione del sindaco Ignazio Marino a Roma, ha dovuto parare i colpi di chi, anche all’interno del suo partito, ne chiedeva la testa; e dall’altra parte subire le minacce della criminalità che hanno portato la magistratura a metterlo sotto protezione.

“Spero duri il meno possibile, non posso pensare di portare mia figlia al parco con la scorta”.

Usa un tono adenoidale, un birignao dalemiano, quando parliamo più di due ore nel suo ufficio al Nazareno, e per tutto il tempo che mi concede mi sorprendo che non risponda al telefono e non guardi il cellulare che continua a vibrare accanto a noi. Ragiona lento, sceglie le parole; e mostra un’aria da funzionario di partito, non fa nulla per sembrare un politico nuovo, affabile e smart, rapido e iperconnesso.

Ogni domanda la prende sempre alla larga: di Roma, per esempio, non gli interessa parlarne come se fosse sganciata da una riflessione politica più generale. Anche il suo libro uscito nel 2012, Con le nostre parole, doveva essere un libro sulla fondazione del Partito democratico, ma ampliava da subito il campo, criticando le premesse con cui si era costituita l’Europa politica. Oggi fa un bilancio simile: la crisi della politica che dobbiamo affrontare non riguarda solo l’oggi e non riguarda solo l’Italia. L’emergenza romana e quella greca sono espressioni di una stessa crisi. La sfiducia nella rappresentanza rivela una difficoltà per la politica di governare i processi economici.

“Il processo d’integrazione europea è incompleto. È fallita l’idea che tu potessi unire l’Europa solo con la moneta. Dall’altra parte sono aumentati divari e squilibri, che sono un freno per tutta l’Europa. E il tema politico principale è la crisi del modello neoliberista, tra quelli che ti dicono è fallito perché non siamo andati fino in fondo, e quelli che ti dicono è fallito perché era sbagliato”. E sull’austerity ha le idee molto chiare: “O si investe, o si mettono risorse, o si sviluppano politiche espansive; o vincono i populismi xenofobi”.

Keynesiano, insomma (nonostante la tendenza del suo partito?). Lui sembra persuaso del fatto che il 41 per cento alle europee del Pd sia frutto di un posizionamento a sinistra. Del resto rispetto alla questione su chi debba occuparsi del rapporto tra economia e politica – certo, la questione è nuova nell’epoca della liquidità – ha una soluzione antica, novecentesca. I partiti, chi altri? Partiti larghi, che facciano massa critica.

L’avversario è il populismo

Ostile tanto alla retorica dei tecnici, quanto a quella della società civile, Orfini vorrebbe semplicemente più credito per i partiti, più federazione tra le sinistre.

Nei suoi tweet segnala i dibattiti alla festa dell’Unità, nel suo libro sessanta pagine sono dedicate alla storia del Pd e l’appendice è una relazione di Palmiro Togliatti sui rapporti tra stato e chiesa. E Togliatti è una specie di suo feticcio: una delle citazioni che gli ho sentito fare più spesso, in interviste, articoli, interventi, è una famosa frase del Migliore: “I partiti sono la democrazia che si organizza”.

Il rapporto presidente-segretario del Pd per Orfini sembra il modo per mettere in atto una rottamazione dolce.

Così, anche rispetto alla situazione greca la disamina che fa è complementare: “L’Europa non ha salvato la Grecia, l’ha distrutta. L’elemento di debolezza di Tsipras è non concepire fino in fondo una battaglia più larga, di considerarla come una questione greca”.

C’è da dire che anche gli esponenti di sinistra, da François Hollande a Matteo Renzi, non gli hanno dato una mano.

Eppure è proprio il presunto europeismo di Renzi ad averlo avvicinato al presidente del consiglio. Addirittura attribuisce, in maniera abbastanza spericolata, a Renzi la leadership di un nuovo fronte europeo antiausterità; debole, lo ammette anche lui. Dall’altra parte però Orfini ragiona come se avesse introiettato l’etica superegoica dei partiti di un secolo fa, per cui non esiste dialettica interna che non sia di fatto “centralismo democratico”.

E quindi l’alleanza con Renzi è un’intesa o è strategia? Che ne è stato dei giovani turchi?

Orfini è stato collaboratore di Massimo D’Alema, membro della segreteria di Pier Luigi Bersani, gli fu affidata la presidenza del partito dopo l’exploit del Pd alle elezioni europee, per una sorta di riequilibrio dei poteri. Ma se il rapporto presidente-segretario del Pd dal suo predecessore Gianni Cuperlo era immaginato come un’aspra dialettica interna, per Orfini sembra il modo per mettere in atto una rottamazione dolce.

Sorvola sul fatto che la posizione di Renzi non riesce a smarcarsi da quelle della troika (quando, per esempio, dichiara la sfiducia per Tsipras: “Non abbiamo tolto le baby pensioni agli italiani per lasciarle ai greci”), e rimarca invece che l’accordo con Renzi è innanzittutto culturale e generazionale.

Su questo Orfini torna più volte: “Chi si è formato politicamente negli anni novanta, tra le guerre in ex Jugoslavia e interrail, fa parte di una generazione che più di altre ha fatto in tempo a vedere il mondo senza l’Europa; ama l’Europa perché non la dà per scontata; e per questo percepisce la gravità di un’uscita dall’Europa, la sua disgregazione”.

Il suo avversario del resto non è Renzi né Berlusconi o Salvini. È l’antipolitica, il populismo, ed è talmente convinto di questo che, anche di fronte alla crisi del Pd romano, non si fa venire il dubbio che il problema sia proprio la forma partito.

È stato lui a chiedere a Fabrizio Barca di condurre un’indagine interna e quando i risultati di quest’indagine hanno mostrato un partito personalistico, inefficace, poroso alla criminalità, ha scritto su Facebook che solo con più organizzazione si sana un partito.

“Fabrizio e il suo team hanno ovviamente immaginato parametri che definiscono cosa è buono. Hanno immaginato un circolo ideale. Che per essere tale deve avere rapporti col territorio, progettarne le trasformazioni, stimolare le istituzioni in modo autonomo.”

Però c’è una questione che resta elusa: se una gran parte del Pd romano era così marcio, clientelare, come faceva Orfini a non esserne a conoscenza?

“Che il partito fosse governato da una guerra tra bande, sequestrato e infeudato da correnti che non avevano nobiltà di pensiero, era chiaro. Ma non eravamo a conoscenza della parte criminale. Certo è stata la responsabilità del Pd, è stato non intervenire, creando di fatto un meccanismo pericoloso – che non riguarda solo Roma. Dobbiamo dire che c’è chi l’ha voluto così, c’è chi s’è adeguato, c’è chi ha provato a stroncarlo, c’è chi se n’è andato”.

Ma se gli chiedo se si riferisce a Walter Veltroni, Goffredo Bettini, Roberto Morassut, i margheritiani, gli ex comunisti, ad altri capicorrente quando addita le responsabilità politica di questa generazione, glissa:

Quando c’era Veltroni sindaco, non solo non ero veltroniano, ma gli ho fatto una battaglia interna. Ma quello che si deve riconoscere, c’era un’idea di Roma. Quando ero segretario di sezione, le battaglie del partito le sentivo mie, poi si è dispersa quella capacità progettuale. La vera responsabilità di Rutelli o di Veltroni non è di come hanno governato ma come se ne sono andati, usando Roma come trampolino di lancio.

Allora la domanda vera che nessuno fa sul Pd è perché negli ultimi anni, nonostante i successi elettorali e l’enfasi del renzismo, stia perdendo clamorosamente iscritti? E cosa si dovrebbe fare per rendere il Pd un partito attraente e non solo scalabile (pure dai Buzzi e Carminati vari)? Le fonti ufficiali dicono 831.042 nel 2009, 500.163 nel 2012, 366.641 nel 2014. Orfini ammette e rilancia: “Uno che s’iscrive a fare? I circoli non corrispondono alle esigenze politiche oggi. A che serviamo se il nuovo proletariato urbano non si rivolge a noi? Dobbiamo farli diventare strumenti per progettare il cambiamento del territorio. Adesso il Pd a Roma è sicuramente respingente. Bisogna cambiare tutto, aprirsi al territorio. Non è detto che ci riusciamo”.

L’elogio dell’organizzazione

Divaghiamo ma a un certo punto chiamiamo in tavola il convitato di pietra: Ignazio Marino. Orfini lo sa che Roma è un casino, lo sa che sopravvivere a questa rogna sarebbe acquisire molto credito, mi chiede: “Quando esce questo pezzo?”.

Ma comunque si dimostra fiducioso, non può far altro. La spada di Damocle più affilata è quella della relazione del prefetto Franco Gabrielli che deve decidere se il comune di Roma sarà sciolto o meno per mafia. Gabrielli ha dichiarato che la consegnerà nei prossimi giorni (“Io penso che il comune non verrà sciolto”).

La sopravvivenza politica del sindaco è legata a questa scadenza, vero, ma soprattutto – secondo Orfini – ad altri elementi personali: la sua incapacità di comunicazione, e il fatto che esistono problemi che sembrano più grandi di lui (dalla manutenzione del verde all’emergenza immigrati al decentramento folle – realizzato da Gianni Alemanno): “Per governare Roma non basta amministrarla bene ma occorre consolidare delle reti che esistono nella città, culturali, sociali, di solidarietà. Io sono uno di quelli che per esempio ha difeso a spada tratta il Valle. Non ero d’accordo con la fondazione, ma volevo delle zone franche artistiche. E il primo giorno che sono stato nominato commissario i movimenti per la casa hanno occupato la federazione, abbiamo instaurauto un dialogo. Io penso che anche l’ala più dura dei movimenti per la casa sia un bene per questa città, perché è un presidio, è organizzazione del conflitto…”.

Rieccolo. Alla quarta volta che mi fa le lodi dell’organizzazione, comincio a convincermi che questo Matteo da seconda fila avrà una carriera più lunga del suo omonimo premier, semplicemente perché ha un’idea diversa di potere: non gli interessa piacere, non ha fame di consenso. L’ultima cosa che vorrebbe è il plauso per qualche uscita guascone (“non mi piacciono le fiammate in politica”), sa di non emanare tutto questo carisma (“mi piace costruire il consenso nelle sedi proprie, non in piazza”).

Si potrebbe concludere che ciò che gli interessa è inglobare, ha una sorta di fede che in politica non contino le persone ma i partiti, l’organizzazione. Come se fossimo in un lunghissimo novecento mai finito.

E con i consensi per Matteo Renzi che in quest’inizio di estate si erodono ogni giorno (del resto Orfini difende la riforma della scuola e quella del lavoro, ma dice che si poteva fare meglio soprattutto per i precari storici), mi chiedo se in tempi, nemmeno così lunghi, potrebbero invertirsi le parti tra lui e l’altro Matteo. Del resto – come tutti i militanti del vecchio Pci – non mi sembra che gli difetti la capacità di aspettare.

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