02 novembre 2015 16:55

Il caso romano ha mostrato lo scontro di due visioni nuove ed entrambe perdenti della politica: da una parte c’è chi crede in un partito illudendosi di avere un consenso, dall’altra chi crede nel consenso illudendosi di avere un partito.

Le ultime dichiarazioni di Matteo Orfini e Ignazio Marino su Facebook sono un esempio flagrante di questa speculare inconsapevolezza.

Il commissario del Partito democratico (Pd) scrive:

Prima di interrompere l’esperienza di una amministrazione scelta dai cittadini, un partito le deve provare tutte. E io le ho provate tutte. Ma c’è un punto oltre il quale non si deve mai andare: se continuare significa danneggiare la città occorre fermarsi. Ed è quello che abbiamo fatto. Perché la perdita di credibilità e autorevolezza del sindaco – di cui solo lui è responsabile – non la possono pagare i cittadini.

Poi definisce il racconto di Marino autoassolutorio e ridicolo, e chiosa:

Si sarebbe potuto discuterne in aula, come avevamo proposto al sindaco. Bastava non ritirare le dimissioni prima e riunire subito il consiglio. Marino non lo ha voluto e non può scaricare altrove anche questa responsabilità. La sua era una esperienza finita e stava a lui prenderne atto e chiuderla responsabilmente.

Orfini giustifica la pugnalata, ascrivendo a un partito che fino a pochi mesi era definito “non solo cattivo, ma pericoloso e dannoso, che lavora per gli eletti anziché per i cittadini” un’autorevolezza morale e politica perché è passato dal lavacro autoassolutorio dell’indagine assai indulgente dell’equipe di Fabrizio Barca.

E non perdona alla giunta Marino i tempi dilatati di un passaggio delicato ma radicale di stile politico: per fare un esempio, se si passa dall’assegnazione diretta degli appalti all’assegnazione per bando ci sarà una fase provvisoria di assestamento faticosa, in cui è normale che la macchina amministrativa rallenti.

L’ex sindaco, all’opposto, rivendica la sua serie di provvedimenti per l’ennesima volta:

Dal nuovo ciclo dei rifiuti che ha sottratto la gestione a un monopolista privato che agiva indisturbato dal 1963, lo stop al consumo dell’agro romano per nuovo cemento, il rinnovo dei vertici delle aziende municipalizzate non sulla base delle tessere di partito ma sulle competenze dei candidati.

Ma – per quella stessa estraneità alla politica che si è attribuito, finché non ha realizzato che stava segando il ramo su cui era seduto – non si rende conto che tutto questo non gli viene contestato da nessuno; mentre ancora non risponde della sua incapacità di mediare, di costruire una squadra amministrativa collaborativa, di intercettare le forze vive della città (non blandendo i poteri forti, come nelle ultime nomine per l’Auditorium) e di coinvolgerle nel governo. Tutto ciò che gli avrebbe permesso di continuare con più forza il suo mandato.

I politicisti contro gli antipoliticisti.

All’improvviso anche in Italia questo contrasto non è più implicito ma flagrante. Non è un caso che in più di un commento si parli esplicitamente di “postdemocrazia”, citando un saggio, ormai decennale ma ancora poco letto in Italia, di Colin Crouch.

A rileggere oggi molte di quelle pagine di Crouch, la vicenda triste, solitaria y final di Ignazio Marino, non appare come un unicum ma sembra piuttosto la messa in scena di un processo già scritto, perfino nella sua fenomenologia quotidiana più spiccia e nel suo racconto.

Parliamo di cittadinanza nella sua accezione positiva quando gruppi e organizzazioni di persone sviluppano insieme identità collettive, ne percepiscono gli interessi e formulano autonomamente richieste basate su di esse che poi girano al sistema politico. È attivismo nell’accezione negativa, protesta e accusa, quando lo scopo principale della discussione politica è vedere i politici chiamati a render conto, messi alla gogna e sottoposti a un esame ravvicinato della loro integrità pubblica e privata.

Se la interpretiamo in questo modo, comprendiamo quanto siano reazionarie e inutili le filippiche che hanno inondato i giornali nell’ultimo anno sul personaggio Marino: marziano, pagliaccio, eroe, eccetera.

Il rischio piuttosto, nel parlare di postdemocrazia, è proprio quello che pur di fare profezie, ci accontentiamo di paesaggi sfocati, e di scambiare gli scenari futuri per possibilità più che per sintomi di una diversa causa.

Già in questi ultimi giorni, con il cadavere della giunta ancora caldo, e con la pagina terribile di un’esperienza amministrativa terminata dal notaio e non in aula, si dà un gran credito a coloro che usano tutte espressioni postdemocratiche.

Ecco allora commissari ufficiali e informali – Matteo Orfini, Fabrizio Barca, Franco Gabrielli, Raffaele Cantone, Francesco Tronca – che fanno a gara per esprimere il bisogno di una svolta manageriale (o prefettizia) per l’amministrazione della città; gli ingombrantissimi rappresentanti del Vaticano che gli fanno da coro con toni quasi neoguelfi; “il modello Expo” e il “dream team” invocati da Matteo Renzi, o la sua affermazione ancora più pericolosa per cui la sfiducia è causata dal fatto che “Marino ha perso il contatto con la città”; la dichiarazione di Alfio Marchini “candidato con chi ci sta, destra e sinistra è uguale” rilasciata appena un secondo dopo la fine di Marino; e a seguire anche quelli che ormai da un lustro sulla squalificazione della classe politica hanno costruito un’identità (il Movimento 5 stelle, Fratelli d’Italia, Romafaschifo, i retakers…).

Sarebbe però interessante leggere questa crisi politica come la dimostrazione plateale della crisi del centrosinistra e la deflagrazione della stessa idea di centrosinistra. Se proviamo ad allargare il campo, ci accorgiamo che il caso Roma non è isolato.

Nell’ultimo numero di Micromega ne ragiona chiaramente Chantal Mouffe: il centrosinistra da Tony Blair in poi ha cercato di limitare l’ingerenza dei poteri economici, gestendo quei pochi spazi di democrazia formale lasciati liberi da questi stessi poteri. Il risultato è che le istituzioni oggi sono imbelli o inefficienti, o addirittura – in una democrazia debole come quella italiana – corrotte fino a essere facilmente permeabili alle mafie.

Nel disastro della democrazia rappresentativa, Mouffe vede però non solo le tenebre di un’apocalisse a venire, ma comunque un’ambizione politica, e una speranza.

[Le nuove forme politiche] lungi dal ripudiare le istituzioni della democrazia liberale, mirano piuttosto alla loro radicalizzazione, esigendo forme di rappresentanza migliori e più inclusive. Al fine di soddisfare le rivendicazioni di coloro che chiedono di avere più ‘voce’, le istituzioni rappresentative attualmente esistenti devono essere trasformate e bisogna fondarne di nuove, in modo da creare le condizioni per un conflitto di tipo agonistico che offra ai cittadini delle alternative reali. Questo conflitto non richiede una strategia di abbandono delle istituzioni già esistenti, quanto piuttosto quella di un coinvolgimento al loro interno per poterle trasformare in maniera profonda.

Stigmatizzare la democrazia rappresentativa – in nome di lotte popolari, dal basso – vuol dire buttare il bambino con l’acqua sporca (“molti non sembrano rendersi conto del fatto che le conquiste democratiche realizzatesi […] nel corso degli ultimi dieci anni, sono state rese possibili dalla congiunzione di lotte parlamentari e lotte extraparlamentari”), rinunciando di fatto al pluralismo, alla dialettica tra classi sociali, alle conquiste importanti del liberalismo.

C’è in questo ultimo aspetto, un elemento in più che andrà tenuto ben presente nei prossimi mesi: il ruolo dei mezzi d’informazione. Nella vicenda Marino i giornali si sono dimostrati spesso completamente incapaci di svolgere un ruolo di contrappeso rispetto al potere politico. In un dibattito pubblico completamente focalizzato sulle accuse ad personam, sugli scandali privati, in una città in cui i due giornali principali sono di proprietà di due costruttori – il Tempo della famiglia Bonifaci, il Messaggero della famiglia Caltagirone – le possibilità di avvelenamento della prossima campagna elettorale che si prepara per Roma sono molto preoccupanti.

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