29 gennaio 2017 10:44

(Questo articolo contiene degli spoiler, ma – se ci pensiamo – la stessa letteratura non è uno spoiler sulle vite, in grado di rivelarci cose che una parte di noi desiderava rimanessero celate?).

La letteratura è una parentesi: cerca di proteggere questi segreti, come costruendo un riparo dalla furia della storia.

La letteratura è il nostro tentativo di combattere la mancanza di onniscienza: un tentativo che si rivela alle volte tragico, alle volte spietato, alle volte commovente.

I libri che mi piacciono di più sono quelli che espongono questa nostra fragilità. La condizione di uno scrittore come quella di colui che incarna il ruolo di un dio onnisciente, e alla fine ci mostra come anche questa sia una recita.

Prendiamo la persona con cui più abbiamo confidenza in vita nostra – nostra moglie, nostro marito, qualcuno con cui abbiamo vissuto per venti o quarant’anni, dormendo ogni sera nello stesso letto, scambiandoci gli odori, confessandoci le nostre paure più profonde. Quanto veramente sappiamo di lui o di lei? Quanta parte dei nostri pensieri sappiamo veramente condividere?

Fato e furia di Lauren Groff (pubblicato da Bompiani, la traduzione raffinata e empatica di Tommaso Pincio) è un libro bellissimo per molti diversi motivi, ma per chi scrive, per chi vuole scrivere, per chi è interessato a capire come funziona la narrativa, è un piccolo colpo al cuore. Ci mette a parte di questo mistero che già conoscevamo – lo iato incolmabile tra quello che sappiamo e quello che esiste ma ci è nascosto – ma poi con brutale maestria lo riflette, come uno specchio rotto, dalla storia alla forma della narrazione.

Due persone risalivano la spiaggia. Lei era bionda ed elegante nel suo bikini verde, malgrado fosse maggio nel Maine e facesse freddo. Lui era alto, vivido; emanava uno sfarfallio luminoso che saltava all’occhio e lo teneva avvinto. Si chiamavano Lotto e Mathilde.

I due protagonisti sono tanto splendidi da essere invidiabili: alti, muscolosi, talentuosi, determinati, quando si conoscono in una festa all’università (il prestigioso Vassar college) hanno gli occhi di tutti puntati su di loro, quando si scelgono è come se veramente fosse il fato a decidere per loro.

Si sposano dopo quindici giorni, e sigillano il loro matrimonio, anno dopo anno, con una serie di scopate meravigliose che costellano tutta la prima parte del libro – la sensualità dei loro corpi che si desiderano è più forte di qualunque inciampo, del tempo che passa, della povertà, della depressione di lui, dell’anedonia di lei, della fatica di ogni matrimonio. Sfrontati, solidali, inseparabili. Non si tradiscono mai, e appena stanno lontani, sanno come ritrovarsi semplicemente spogliandosi e buttandosi sul letto; i loro corpi sono sempre più saggi di loro.

Colpe e presagi
Nella seconda parte il caleidoscopio viene rovesciato: il romanzo è narrato sempre in terza persona, ma se finora il fuoco era su Lotto, adesso è su Mathilde. Come avrebbe detto il sociologo Ervin Goffman, la vita quotidiana è rappresentazione di sé – rappresentazione teatrale, un palco continuo, una recita che sta a noi interpretare con incanto – e Lotto e Mathilde conoscono le regole del teatro, quello classico e quello moderno: lui è stato un attore da giovane, poi ha oltrepassato la linea d’ombra mettendosi a scrivere commedie che lei gli revisiona.

Come aveva intuito Schopenhauer, il mondo è rappresentazione ma la sua essenza è volontà, ossia una forza cieca e senza scopo. Ecco la potenza distruttrice incarnata da Mathilde: dietro la loro vita dolce, prima bohémien e poi borghese, c’è la furia delle erinni, le furie – una serie di colpe inesauribili che affondano nel passato e di presagi neri.

Il sogno americano fuori tempo massimo di due ragazzi, ventenni negli anni novanta, è più fragile della cappa trasparente di un Truman Show: è la vita delle persone che amiamo il territorio più sconosciuto in cui potremmo ritrovarci.

Se per duecento pagine ci è stato raccontato il ménage naturale e fortunato di una coppia come se l’amore potesse essere un panopticon dal quale finalmente poter accedere all’intimità di chi ci sta vicino, nelle successive duecento pagine quest’illusione viene cancellata con crudeltà: la vita dal punto di vista di Mathilde è una costellazione nera di violenze, vendette, ricatti, sofferenze taciute. E il nostro ideale d’amore allora si rovescia: forse un matrimonio può vivere soltanto in questo celarsi continuo, e una relazione sincera può essere solo asimmetrica, il sovrapporsi di due visioni che instancabilmente si eludono.

Insomma cosa possiamo chiamare veramente amore? La bellezza del romanzo di Lauren Groff sta nel prendersi carico di questo spazio di mistero, attraverso una capacità narrativa impressionante, che non è solo “un dono per la mimesi” (come scrive giustamente James Wood sul New Yorker), ma un senso di un ritmo tutto costruito sull’ellissi.

Le si potessero legare assieme, come perle di una collana, le feste cui andarono Lotto e Mathilde, se ne ricaverebbe un’immagine in miniatura del loro matrimonio. Lei sorrideva al marito in spiaggia, dove gli uomini erano impegnati in una corsa di modellini di macchine telecomandati. Lotto era una sequoia tra i pini, la luce nei capelli sempre più radi, la risata che sovrastava le onde. La musica scaturiva misteriosamente dal soffitto, le donne conversavano all’ombra della veranda, bevendo mojito e guardando gli uomini. Era inverno, si gelava; indossavano tutti maglie di pile. Fingevano di non farci caso. La festa si approssimava alla fine, anche se né Mathilde né Lotto lo sapevano.

Prendiamo a prestito anche noi un mito per provare a spiegare come la Groff scrive.

Quando Didone approdò sulle coste africane, le venne data la possibilità di scegliersi un terreno grande “quanto poteva contenerne una pelle di bue”; allora lei tagliò una pelle in strisce sottilissime e le legò come una rete. Quello che riesce a fare Groff è simile, ha probabilmente imparato a riuscirci scrivendo racconti (ne è una dimostrazione la sua bellissima raccolta Delicati uccelli commestibili e in particolare il piccolo capolavoro che è “L. Debard e Aliette”) e ha applicato la lezione della costruzione a macchia alla storia di Lotto e Mathilde, ogni tanto concedendosi anche il lusso di mostrare il trucco.

Fato e furia è disseminato di parentesi quadre in cui il narratore puntella – ora ironicamente ora fatalmente ora come a inserire una torsione stilistica o una libertà lirica – la pagina che lui stesso sta costruendo.

Degli esempi:

  1. A sera Lotto si ritrovò su una rampa d’imbarco per trascinare i piedi dentro un aereo. Si guardò indietro. Sallie teneva in braccio Rachel, entrambe strillavano tra le lacrime. Antoinette se ne stava immobile, le mani sui fianchi. Aveva il viso contorto da una smorfia. Rabbia, pensò lui. [Sbagliato.]
  2. Il preside lo convocò. Gli era giunta voce che Lancelot era angosciato. I suoi voti erano ottimi; era tutt’altro che scemo. Dunque perché era infelice? Le sopracciglia del decano erano bruchi capaci di spazzolarsi interi alberi di mele nell’arco di una notte. Sì, confermò Lotto, era infelice. Hm, disse il preside. Lotto era alto, sveglio, ricco. [Bianco.]
  3. Nella scena in cui Manfred moriva, il volto di Lotto era lucido e luccicante. Sudore, non lacrime, almeno così pensò lei. Difficile capire. [Lacrime.]
  4. La pressione del parquet dentro palmi e ginocchia. Odiò la parte di lei, piccola e focosa, che si eccitava nell’essere lì, a quattro zampe. Sporcacciona. Si sentì bruciare. Fece un giuramento: non avrebbe mai gattonato per un altro uomo. [Agli dèi piace prenderci per il culo, avrebbe scoperto Mathilde in seguito; diventò moglie.]
  5. La ragazza si presentò quella mattina con la sua vestaglia di flanella. La madre si voltò, cantando, vide la figlia, il rigonfiamento all’altezza della vita, e lasciò cadere il pane alla cannella che stava preparando. La ragazza venne portata in un posto elegante. Erano tutti gentili. Venne strofinata nell’intimo. Voci soffuse. Se ne andò, ma non era la stessa ragazza di quando vi era entrata. [Le vite degli altri si ricompongono per frammenti. La luce che brilla da una storia diversa illumina quel che è rimasto oscuro. I cervelli sono miracolosi; creature che raccontano le storie degli esseri umani. Le schegge si uniscono e formano un insieme.]

L’effetto è vertiginoso. Groff ricava quest’espediente da Gita al faro di Virginia Woolf (David Means nel racconto intitolato “Petrouchka con omissioni” se ne serve in maniera virtuosistica), e lo utilizza in un modo che non è solo un controcanto, ma lo svelamento continuo del carattere fragile della letteratura, della pretesa di onniscienza e dei suoi commoventi fallimenti, come a voler semplicemente indicare in questo una corrispondenza tra i romanzi e la vita: tutto ciò che proviamo a riparare crollerà comunque, ogni volta che ci avviciniamo a qualcuno percepiamo il diaframma che comunque ci separa, ma anche se siamo questi disastri esiste qualcosa che non possiamo che definire amore e che nonostante noi durerà.

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