24 settembre 2004 13:18

Serviva una parola ad hoc. Gli occidentali possono essere definiti imperialisti o razzisti, o “eurocentrici”, e molti di loro sono pronti ad accettare questa definizione, o almeno a sottoporsi a un’autocritica. Ma secondo una certa teoria, solo i bianchi possono dirsi propriamente razzisti, perché il “razzismo” è una struttura di potere e non un pregiudizio.

C’è dunque bisogno di un termine distinto per indicare un nero etnicamente fazioso oppure ossessionato dalla razza (qui “razzialista” potrebbe andar bene). E come definire Osama bin Laden, che vuole ripristinare il vecchio califfato musulmano? Forse non imperialista, ma certamente reazionario. Per non dire del suo odio per gli ebrei, i cristiani, gli sciiti, gli indù, le donne emancipate, gli omosessuali e i miscredenti laici. Qui il termine giusto potrebbe essere “fascista”.

In mezzo a tanta confusione, Ian Buruma e Avishai Margalit hanno proposto la nozione di “occidentalismo”. Prendono spunto, ribaltandola, dalla formula “orientalismo”, proposta da Edward Said, in base alla quale una società o i suoi intellettuali possono essere giudicati secondo il loro atteggiamento verso l‘“altro”. Avishai Margalit insegna all’Università ebraica di Gerusalemme e si è identificato molto con l’ala laica e internazionalista dei pacifisti israeliani. Ian Buruma è noto per i suoi brillanti studi sull’Asia, la Germania e l’Inghilterra. Entrambi hanno in comune una forte ammirazione per Isaiah Berlin.

Il libro (che in Italia uscirà a novembre per Einaudi) è breve, ma non superficiale. Gli autori dimostrano che nella tradizione intellettuale dell‘“oriente” c’è una lunga storia di paranoia antioccidentale, ma questa ha per lo più radici nel pensiero non musulmano e non orientale. In realtà, se si può fare un paragone con il fascismo, questa paranoia antioccidentale può essere fatta risalire ad alcune delle origini e degli autori che ispirarono il fascismo.

In molte aree della cultura tedesca, russa e francese si trova lo stesso odio per la “decadenza”, la stessa venerazione dell’eroe spietato, la stessa attrazione per il “capo”, la stessa paura di una civiltà meccanicistica contrapposta alla società “organica” basata su tradizione e fedeltà. Al centro dell’interesse di Buruma e Margalit ci sono gli elementi di quest’odio per il proprio mondo. Cosa c’è nell’anima occidentale che porta alla violenza, all’autoritarismo e al fanatismo? Per liquidare subito un problema, non c’è dubbio che l’odio per gli ebrei e una morbosa diffidenza verso l’illuminismo abbiano a che fare con ciò. Dietro alla presunta sicurezza di sé delle comunità etniche europee apparentemente “organiche” si cela un’insicurezza cosciente, in parte, del fatto che lo stato-nazione è un po’ una finzione o un costrutto.

Accanto a questa insicurezza c’è il timore ricorrente di un governo segreto o invisibile che manipola tutto. La fantasia paranoide dei Protocolli dei savi anziani di Sion è l’apoteosi di questa mentalità. È possibile definirli una fantasia perché sono in grado di spiegare tutto alle menti deboli o disordinate: dal cosmopolitismo ateo al giudeo-bolscevismo (la paura segreta dei nazisti) alla plutocrazia giudaica (l’altra paura segreta del partito nazista e anche di altri). Contrapposta a questa sinistra cospirazione degli oziosi, degli effeminati e degli intellettuali – la stessa parola “intellettuale” fu coniata come insulto dai nemici di Dreyfus – è la difesa del guerriero virile che combatte alla luce del sole.

Questo “modello” trasuda disprezzo per le idee di agio, sicurezza e democrazia che sono la consolazione dei mediocri. Buruma e Margalit dicono che “parte della retorica che oggi viene dagli Stati Uniti, specie dagli ambienti neoconservatori, si avvicina a questa visione”. Se i due autori scrivono “specie”, dovrebbero poter specificare, cosa che non fanno.

Uccidere e morire

Un capitolo centrale verte sulla macabra questione del suicidio, ovvero la convinzione che la morte va amata più della vita. Non è una patologia esclusiva di al Qaeda, e ancor meno dell’islam. Anche i cosiddetti guerrieri kamikaze del Giappone imperiale erano terrificanti, finché non furono sconfitti; più vicino a noi, l’omicidio-suicidio è stato usato dalle Tigri tamil dello Sri Lanka, altro gruppo non islamico.

La cosa importante non è il metodo; quel che conta è l’ideologia. Chi è entusiasta di morire sta esprimendo un odio per le banali realizzazioni quotidiane della società umana. La cosa potrebbe essere meno spaventosa di quanto sembra: un qualunque volontario di un esercito democratico deve in ultima istanza esser pronto a morire quanto a uccidere, e anche queste forze ottengono le loro travolgenti vittorie.

Occidentalismo è importante perché ci ricorda che il suicidio della nostra società è stato progettato all’interno delle sue mura e quanto questo progetto sia reazionario e antiumanistico. In “occidente” le idee di pluralismo liberale sono molto più recenti di quanto si pensi, e potrebbero in realtà aver bisogno anche di qualche spietato combattente.

*Traduzione di Nazzareno Mataldi.

Internazionale, numero 558, 24 settembre 2004*

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