16 febbraio 2005 13:14

Perché sembra che l’intervento in Afghanistan sia andato meglio del previsto, mentre quello in Iraq si è dimostrato più difficile? Si possono dare diverse risposte. L’Afghanistan aveva già vissuto l’esperienza della teocrazia e della guerra civile, e la sua popolazione era stanca e assuefatta.

I taliban erano stati al potere solo per poco, mentre il partito Baath iracheno aveva avuto più di trent’anni per abituare la popolazione a una timorosa obbedienza. La maggior parte dei vicini dell’Afghanistan vuole che il governo di Karzai porti un minimo di stabilità, mentre alcuni dei vicini dell’Iraq puntano a mettere in difficoltà il governo Allawi.

Però in Iraq le truppe della coalizione non entrano rombando nei villaggi per imporre alla gente di smettere di produrre o consumare i prodotti petroliferi. Né scorrazzano per il paese facendo saltare in aria i pozzi di petrolio o le trivelle. Immaginate come sarebbe diverso se lo facessero.

E adesso pensate che ogni giorno, in Afghanistan, i soldati che agiscono in nostro nome bruciano o distruggono l’unica coltura esistente, rischiando di far ricadere il paese nelle mani dei signori della guerra e nell’anarchia.

Embrionale ripresa economica

Apprendiamo dal New York Times dell’11 dicembre che in seguito ai suoi accertamenti segreti il tenente generale David Barno, l’ufficiale americano di più alto grado presente nel paese, è arrivato alla conclusione che la coltivazione del papavero è il principale ostacolo alla creazione di una società civile, e l’unico mezzo con cui gli ex taliban e le forze di al Qaeda sperano di riprendersi.

A una lettura più attenta dell’articolo, tuttavia, si capisce che è la campagna contro la coltivazione del papavero il vero ostacolo. Questo fatto era sottolineato anche da un commento apparso nella stessa edizione del Times, firmato dal ministro delle finanze afgano Ashraf Ghani.

“Oggi”, scriveva il ministro, “molti afgani sono convinti che non è la droga, ma una guerra sbagliata contro la droga a ostacolare la loro economia e la nascente democrazia”. Ghani sottolineava che un terzo del pil del paese dipende da quelle colture e che “distruggerle senza offrire agli afgani un mezzo di sussistenza alternativo rischia di annullare l’embrionale ripresa economica degli ultimi tre anni”.

Non ci si chiede mai, però, cosa succederebbe se quell’attività fosse legalizzata e tassata: una soluzione che la sottrarrebbe al controllo della mafia e farebbe arricchire in breve tempo un gran numero di contadini afgani. Vent’anni fa i principali prodotti di esportazione del paese erano l’uva e l’uvetta. La sua era una cultura dei vigneti. Ma molti di quei vigneti – se non quasi tutti – sono stati lasciati seccare o abbattuti, o addirittura sradicati per ricavarne legna da ardere, nel corso di questi decenni di guerre.

Un afgano che fosse tanto ottimista da piantare oggi una vigna dovrebbe aspettare cinque anni prima di poterne trarre profitto, mentre se pianta papaveri li vedrà fiorire entro sei mesi. Che fareste voi, se la vostra famiglia fosse alla fame? I funzionari americani incaricati di sradicare queste colture sono tutti convinti di sprecare il loro tempo.

Non ci vuole molto per capire come ha sempre funzionato il proibizionismo o per sapere che la domanda dei consumatori americani è così forte da superare qualsiasi tentativo di frenare l’offerta. Tutto questo lo sappiamo già dalle atroci esperienze in Bolivia, Colombia e Messico.

La prossima priorità

Per capirlo non è necessario sapere molto dell’Afghanistan. Conoscete qualcuno che crede davvero alla presunta “guerra alla droga” condotta dagli Stati Uniti? Tutti sanno che è una delle maggiori cause di detenzioni inutili, costose e ingiuste, che è un’enorme fonte di corruzione per i dipartimenti di polizia, che porta all’immissione sul mercato di narcotici inquinati o tagliati.

Senza tener conto di assurdità e crudeltà come il rifiuto di somministrare marijuana a scopi terapeutici, o il dirottamento di personale e risorse dalla lotta contro organizzazioni criminali più pericolose. La politica del nostro governo, in patria e all’estero, non punta a fermare un commercio che in realtà aumenta di anno in anno, ma a garantire che i suoi remunerativi mezzi di produzione e distribuzione restino nelle mani del crimine.

Ci stiamo privando deliberatamente di prodotti correttamente raffinati e di grandi risorse, che potrebbero finire nelle casse del nostro erario piuttosto che in quelle delle mafie nazionali e straniere.

Prima o poi dovremo rinunciare a questa folle politica ereditata dell’amministrazione Nixon, e credo che il sacrificio dell’Afghanistan possa essere il punto di svolta. Diversi funzionari carcerari, poliziotti, politici e scienziati – sia della destra sia della sinistra intelligente – sono arrivati alla conclusione che la depenalizzazione è necessaria e urgente. È difficile pensare che ci sia un’altra riforma capace di cambiare tante cose in così tanti settori. Dovrebbe essere la prossima priorità.

*Traduzione di Bruna Tortorella.

Internazionale, numero 577, 11 febbraio 2005*

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