25 gennaio 2015 15:22

Nell’ultimo anno sono stati pubblicati vari libri che aspirano a diventare classici della poesia italiana. Fra questi, ci sono quelli di tre poeti del secondo novecento, le cui opere sono state ripubblicate integralmente: Tutte le poesie di Franco Fortini, a cura di Luca Lenzini (Mondadori, 22 euro); L’opera poetica di Emilio Villa, a cura di Cecilia Bello Minciacchi (L’Orma Editore, 45 euro); Tutte le poesie. 1949-2004 di Giovanni Raboni, a cura di Rodolfo Zucco (Einaudi, 2 volumi, 25 euro).

Partiamo da Emilio Villa, che forse è il meno noto dei tre: nasce ad Affori, Milano, nel 1914, e muore a Rieti nel 2003. L’iniziativa di Bello è la più ambiziosa, perché questa è la prima raccolta completa delle poesie di Villa. Non solo: alcuni dei testi pubblicati da Bello si leggono qui per la prima volta in assoluto.

Emilio Villa.

Emilio Villa era un uomo che dava notizie vaghe e imprecise su di sé: per esempio, nasce nel 1914, dicevamo; eppure per molto tempo neanche questa informazione è stata considerata sicura, perché sosteneva di essere nato nel 1915. Trascurato dalla storiografia letteraria e dall’editoria, fa della clandestinità un elemento di poetica. Oggi conosciamo i fatti principali che lo riguardano grazie alle ricostruzioni di suoi amici e di studiosi: dalla gioventù in seminario, ai viaggi in Brasile e negli Stati Uniti, e ai rapporti con molti artisti italiani e stranieri (Fontana, Burri, Rothko eccetera).

Nell’introduzione all’Opera poetica, a pagina 12, si legge che “occorre accettare la responsabilità di trattare Villa come un classico”. Questa mi sembra la questione più seria posta dal libro pubblicato dall’Orma; e la risposta non è scontata. Ciò che Bello considera un riconoscimento dovuto è davvero necessario?

Villa ha scritto: “Ho inventato la poesia distrutta, data in pasto sacrificale alla Dispersione, all’Annichilimento: sono il solo che ha buttato via il meglio che ha fatto” (p. 11). Non è un paradosso volerlo canonizzare e considerarlo un classico?

Il fatto che Villa abbia avuto una posizione periferica nel canone del novecento è anche il risultato di un autosabotaggio, come scrivono i suoi critici, per esempio perché le sue opere rimangono a lungo irreperibili per sua stessa volontà. Raramente pubblica in formati e con case editrici tradizionali, più spesso invece affida i versi a cataloghi di mostre, a libri introvabili e in edizione limitata; una volta scrive su dei sassi, e li getta nel Tevere.

Le prime poesie, quelle di Adolescenza (1934), potrebbero sembrare apparentate con l’ermetismo; e con gli ermetici condivide l’uso dell’analogia, ma soprattutto la fiducia in “una pura ideologia fonetica”, per citare il titolo di una sua opera. Questa utopia è qualcosa che non verrà mai meno: la sua poesia ha alla base l’idea che la sperimentazione linguistica riveli un’origine al di là delle cose visibili. Ma Villa è un poeta da interpretare all’opposto di Mario Luzi, Salvatore Quasimodo o Alfonso Gatto, perché alla loro poetica oppone la distruzione della lingua e delle norme artistiche tradizionali. “Poesia è terrorismo nel dominio della lingua, / è scoppio nella clausura del linguaggio / è terrore sul fondo delle retoriche” si legge in un suo testo (Poesia è…, a pagina 693). Ecco il maggiore tratto di somiglianza con le avanguardie, con Rosselli, con Zanzotto.

Alcuni autori della neoavanguardia italiana, non a caso, hanno osservato con interesse le sue opere (Nanni Balestrini, Giulia Niccolai, Adriano Spatola eccetera). Tuttavia Villa, inviso a Sanguineti, non entra a far parte del Gruppo 63, e rimane un outsider dei circuiti letterari italiani.

Come avvicinarsi alla poesia di questo autore, dunque? Villa è un poeta a volte oscuro, un poeta che costruisce i testi anche in base all’impatto visivo creato dalla distribuzione delle parole (soprattutto nelle opere degli anni settanta). Non ci si può aspettare di trovarvi immagini realistiche o monologhi lirici, né che rispetti la sintassi convenzionale. Nelle poesie passa da una lingua all’altra – italiano, lombardo, francese, spesso latino, portoghese –, con molte contaminazioni, salti logici, giochi linguistici. D’altronde, stiamo parlando di un autore che coltiva l’interesse per le lingue e le civiltà antiche e che, fin dagli anni quaranta, si dedica a traduzioni di testi biblici.

In più: Villa è anche un critico d’arte. La sua opera più importante è Attributi dell’arte odierna, pubblicato per Feltrinelli nel 1970, ristampato nel 2008 (a cura di Aldo Tagliaferri) da Le Lettere. La poetica di alcuni degli artisti da lui studiati e quella di Villa stesso si intrecciano: si tratta di persone con le quali dialoga per anni (Burri, Fontana, Capogrossi, Manzoni), per le quali scrive testi. E la sua opera è incomprensibile senza queste coordinate.

Se fosse solo questo il senso della sua poesia, forse potremmo archiviarla come letteratura di erudizione inserita in una poetica anticonformista e sperimentale. C’è qualcosa in più, però. Villa è un poeta tragico; come per alcuni tra i migliori poeti dell’ultimo secolo di area sperimentale (Dino Campana, Andrea Zanzotto, Giuliano Mesa), anche nel suo caso non va dimenticato che deformare la realtà attraverso il linguaggio è un modo per interrogarne le cause originarie.

Nel novecento ciò diventa un modo per esprimere dissenso verso le poetiche tradizionali ormai obsolete – da qui la retorica sulla propria clandestinità. In questo senso certo che Villa può essere considerato un classico: “Ebbi più tardi lo scarico delle maiuscole, / il flusso delle iniziali allo stato puro / il sistema corrotto delle sospensioni / delle parentesi, dei tradimenti fonetici / e tutto ciò mi pizzica come / un festone nel cavo delle narici / o dello sfintere» (È una faccenda visuale, pagina 666). La provocazione della forma, la contaminazione con altre tecniche artistiche e l’annullamento del soggetto sono forme ormai storicizzabili; in un certo senso, costituiscono il repertorio canonico dello sperimentalismo poetico novecentesco. Ma considerare un’opera un classico, allora, vuol dire anche individuare i limiti di quelle forme, giudicarle in prospettiva.

Al di là della carica dissacratoria, comunque, la poesia di Villa è altro: è una ricerca di ciò che è origine e nulla, nella convinzione che questi due concetti siano tangenti (”Là origini – Mai c’è stata origine” nell’Elegia in petèl, scrive negli stessi anni Zanzotto). Questo mi pare, invece, l’aspetto per cui vale ancora la pena di leggere questo autore, affrontare la difficoltà della sua opera, e cercare di capire in che relazione si ponga rispetto al resto della poesia contemporanea.

Franco Fortini nella sua casa di Milano, anni ottanta. (Giorgio Lotti, Mondadori Portfolio)

La seconda raccolta è quella che più aspettavo. A differenza di Villa, Fortini (nato nel 1917, morto nel 1994) è già considerato da tempo un classico della letteratura italiana; ma la sua opera poetica è rimasta fuori commercio fino a pochi mesi fa. Non solo le sue poesie non erano mai state raccolte in un unico volume (l’ultima antologia dei suoi testi, curata da Mengaldo, esce nel 1990), ma i suoi libri sono da tempo introvabili, in quanto mai ristampati da Einaudi. Quest’attesa, durata venticinque anni, termina con il volume a cura di Luca Lenzini per la collana Oscar Mondadori. Lenzini è uno degli studiosi più esperti di Fortini, e a lui si deve già il Meridiano Saggi ed epigrammi, uscito nel 2003.

Ora, ci sono vari modi per parlare di Fortini, perché Fortini è stato molte cose: un intellettuale, uno storico della letteratura, un critico militante, un giornalista, un ideologo. E un poeta. Un poeta sempre politico, come spesso si legge, anche quando parla delle rose. Ma cosa vuol dire, concretamente?

Anche quella di Fortini è una poetica attraversata dall’utopia: ai versi affida il compito di proteggere alcune verità del passato, e di prefigurare la gioia a venire della società comunista, unico obiettivo al quale deve tendere l’umanità. Questo è il contenuto più immediato delle sue poesie, e che più si è imposto nella vulgata critica.

Proviamo a considerare alcune poesie con più attenzione: per esempio il Sonetto dei sette cinesi, Traducendo Brecht,La gronda, Aprile 1961,Dalla collina. Cos’hanno in comune? Qui ricorre una struttura che Fortini mutua da Brecht. Chi parla usa la prima persona e mostra se stesso nell’atto di osservare uno scenario naturale o quotidiano (”Un grande temporale / per tutto il pomeriggio si è attorcigliato / sui tetti prima di rompere in lampi, in acqua. / Fissavo versi di cemento e di vetro”, Traducendo Brecht, pagina 238; “Il piccolo roditore / va tra ghiande e cortecce tremando. / Scruta nella mezza luce, fruga / la fossa di spini. Va via tra le pietre”, Dalla collina, pagina 315); da qui fa partire una riflessione che allarga lo sguardo, lo rende storico (”gli oppressi / sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli / parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso / credo di non sapere più di chi è la colpa”). Il soggetto delle poesie di Fortini viene sempre messo a confronto con un orizzonte più ampio, che lo trascende: con la società – intesa da un punto di vista marxista, dunque come risultato di rapporti di potere al suo interno – e con la storia. In alcuni testi (per esempio, Reversibilità, Il presente) sono evocate diverse epoche storiche, e non sempre è resa esplicita la riflessione alla base dell’accostamento tra loro.

A volte i frammenti di realtà evocati sembrano non avere legami l’uno con l’altro (”La donna mi porta la posta, il pacco di libri / lucidi e tante carte da buttar via. Le morì / due anni fa, inedia e vino, il marito a Niguarda. / Il mondo, ripeti dunque, è la storia degli uomini. / I contadini di Cuba urlano contro gli aerei. / Sono un servo che i servi hanno disarmato”, Aprile 1961). In realtà li tiene insieme una riflessione filosofica sulla storia dell’umanità, sulla struttura del presente e sul futuro da compiere.

Una conseguenza del riconoscere sempre la propria posizione individuale in un campo di forze più ampio è esporre la contraddizione del proprio ruolo – Franco Fortini in quanto poeta e intellettuale – : “Fra quelli dei nemici / scrivi anche il tuo nome”. La letteratura è un’arte dei vincitori, uno specialismo elitario in un sistema borghese e capitalistico. A differenza di molti poeti della sua generazione (Pier Paolo Pasolini ed Edoardo Sanguineti, per citarne due molto diversi), per Fortini l’impegno politico vuol dire innanzitutto riconoscere ed esibire questo aspetto paradossale: “A loro chiedo aiuto perché siano visibili / contraddizioni e identità tra noi. / Se un senso esiste, è questo” (Sonetto dei sette cinesi). Più che il contenuto esplicito dei testi, è proprio per questo atteggiamento che Fortini è sempre un poeta politico.

Da questi princìpi di poetica nasce la parte più significativa della sua opera, quella compresa tra Una volta per sempre (1963) e Composita solvantur (1994). Da qui anche la scelta del classicismo: “La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi” (Traducendo Brecht). Le forme classiche conservano il segno dell’orrore, perché sono il risultato di un processo storico e di un conflitto tra classi, ma esprimono anche la tensione verso l’adempimento di alcuni valori: compostezza, humanitas, armonia tra individuo e mondo, saggezza. La poesia deve conservare e additare un ordine, non mimare il caos della realtà. Il principio di ordine, all’interno dei testi, è dato dall’atteggiamento allegorico e raziocinante del soggetto? (”Il mondo, ripeti dunque, è la storia degli uomini”, Aprile 1961, pagina 241); ma anche dal lavoro sulla sintassi e sulle forme metriche.

Quando l’immagine della rivoluzione diventa più lontana e meno concreta, negli anni sessanta, si accentua invece l’ostentazione del rapporto con la tradizione, o la contemplazione della vanità presente: “Lo sguardo è là ma non vede una storia / di sé o di altri. Non sa più chi sia / l’ostinato che a notte annera carte / coi segni di una lingua non più sua / e replica il suo errore (Molto chiare…, a pagina 491).

Mantenendo questo sguardo, la poesia rimane in prima persona ma allarga i confini del genere. Si fa epigramma, messaggio politico o commento letterario, perfino prosa. Il contenuto dei testi di Fortini non è mai fatto di immediatezza emotiva, ma è riferimento a una totalità che può essere colta solo attraverso la riflessione. La poesia è piegata, in un certo senso: il più soggettivo dei generi è usato per esprimere una riflessione sulla storia naturale, sulla sua dimensione storica e sui rapporti di potere che permeano la vita degli uomini. È per questi motivi che uno dei poeti più classici del secondo novecento è stato, in realtà, anche un grande sperimentatore (come si legge qui).

Giovanni Raboni a Roma, il 22 luglio 2002. (Alberto Cristofari, A3/Contrasto)

Infine, Giovanni Raboni. Nato a Milano nel 1932, Raboni è più giovane di Fortini e Villa di circa due decenni; e, soprattutto, la sua opera poetica non ha sofferto dello stesso oblio editoriale. Una prima raccolta di tutte le poesie è stata pubblicata nel 1998 per Garzanti; nel 2006 è uscito il meridiano L’opera poetica, curato da Rodolfo Zucco, che contiene anche le ultime opere di Raboni, morto due anni prima. Sempre Zucco è il curatore di questa nuova raccolta. L’autore dei versi che si leggono in queste pagine è stato anche un importante critico letterario, un protagonista della vita editoriale italiana, uno storico della letteratura. Ma torniamo al poeta, veniamo al punto: perché leggere i suoi versi. Io non li ho mai amati, per esempio. Il fatto è che ho sempre pensato che Raboni avesse ragione: “Quello che Sereni andava facendo mi sembrava quello che io avrei dovuto fare: una coincidenza assoluta. Man mano che venivo a conoscere le poesie che sarebbero confluite negli Strumenti umani, sentivo che mi precedeva di un passo”.

Le case della vetra, la sua prima opera importante, esce nel 1966; un anno prima Vittorio Sereni pubblica Gli strumenti umani. La poetica di Raboni è influenzata da quella di Sereni. Entrambi raccolgono l’eredità di Montale; ma raccontano momenti di una biografia che non si propone come esemplare, ampliano il registro lessicale della lirica, ne spezzano il tradizionale monologismo. Bene. Tuttavia l’opera di Sereni riesce meglio nel tentativo di unire ancora fisico e metafisico, esperienza e memoria di assoluto. Quella di Raboni ha qualcosa di epigonistico e di manierista: fra Montale, Sereni e la linea lombarda.

Pensavo più o meno queste cose, studiando le sue raccolte all’università; e pensieri del genere sono ritornati quando ho scorso la nuova raccolta. Poi, però, mi sono capitate sotto gli occhi pagine che non conoscevo. Ciascuno dei due volumi è introdotto da un autoritratto di Raboni: uno risale al 1977 e l’altro (inedito a stampa) al 2003. A quel punto ho dato un’occhiata a un’intervista ripubblicata di recente online, che avevo già letto anni fa, piuttosto svogliatamente. E ho capito perché la figura di Raboni è centrale nella poesia del secondo novecento.

In Raboni, più giovane di Sereni, la crisi della lirica è più evidente: cosa legittima a usare la prima persona? In che modo si può usare il pronome “io”? “Parler de loin, ou bien se taire”, è la citazione da La Fontaine che si legge in epigrafe a Le case della vetra. Parlare di sé da lontano, in modo indiretto, attraverso correlativi oggettivi, è ciò che Raboni fa inizialmente. La poesia nasce da una ferita, da una distanza rispetto alla realtà, come leggiamo nell’autoritratto del 1977; l’opera in versi è un tentativo di avvicinarvisi. Anni dopo, nell’intervista di cui si è già parlato, scriverà che nelle prime raccolte si tenta una “formalizzazione dell’informale”.

Sono gli anni in cui il dibattito poetico è dettato soprattutto dalla neoavanguardia, che mette in discussione l’egocentrismo della poesia lirica tradizionale; e sono anni nei quali Raboni legge Montale, Sereni, e i poeti modernisti in lingua inglese, soprattutto Eliot e Pound. L’espressione di sé e la presa di parola in modo diretto sono una conquista alla quale giunge per gradi, tra la prima raccolta importante, Le case della vetra (1966), e Cadenza d’inganno (1975). Arriviamo, quindi, agli anni settanta. Raboni, ormai, ha una poetica e temi riconoscibili. Chi dice “io” coincide con l’autore, parla per frammenti della sua vita così come di vicende pubbliche (Notizie false e tendenziose è dedicato all’assassinio di Feltrinelli, L’alibi del morto a quello di Pinelli).

La morte e il colloquio con i morti sono evocati in molti testi: “Quando sei morta stavamo / in una casa vecchia. […]/ Eppure, se ci pensi, in poche cose / c’è meno dignità che nella morte, / meno bellezza.[…]”. È un tema montaliano, ma è fatto proprio da Raboni, assume caratteristiche nuove. La riflessione sulla morte di persone care (inizialmente quella del padre e della madre) diventa riflessione sulla propria, e sulla comunione di vivi e morti: “Stare coi morti, preferire i morti / ai vivi, che indecenza” (pagina 16). Le situazioni create dai suoi versi sono ambientate in un contesto concreto, apparentato da Raboni stesso a quello di Clemente Rebora, Carlo Betocchi, Giorgio Cesarano e di altri autori che formano una koinè lombarda in cui lui, più che mai, si riconobbe (”quella linea lombarda, potentemente realistico-narrativa e, per così dire, antipetrarchesca, che si ritrova anche all’interno della poesia del Novecento e che è l’unica della quale io aspiri a far parte, nonostante i molti debiti che so di avere nei confronti di altri poeti”, pagina VII).

A partire da tre quarti del primo volume, il lettore della raccolta einaudiana nota un cambiamento: i versi sono aggregati in forme regolari, compaiono alcune rime. Siamo arrivati alle Canzonette mortali: anni ottanta, ancora Milano; Raboni è ormai un poeta e un consulente editoriale famoso. È a questo punto che inizia a scrivere in forme metriche chiuse. Non è l’unico: qualche anno prima è uscito l’Ipersonetto di Zanzotto, giusto al centro del suo Galateo in bosco (Mondadori, 1978).

Contemporaneamente, scrivono in forme metriche tradizionali anche Giovanni Giudici, Edoardo Sanguineti, Franco Fortini, e autori più giovani come Riccardo Held, Gabriele Frasca, Patrizia Valduga (compagna di Raboni fino alla sua morte). Per Raboni la riscoperta della forma chiusa sarà un modo per mostrare l’anacronismo della poesia (”Bisogna confessare che ogni poeta converte gli oggetti che tratta in anacronismi”: questa frase di Goethe si legge in epigrafe alla seconda sezione di Versi guerrieri e amorosi, pagina 201), ma anche per sperimentare una nuova forma di libertà formale.

Un primo e valido motivo per leggere Tutte le poesie di Raboni, insomma, è che la poesia italiana nel novecento è stata innanzitutto lirica, e che una parte importante di questa tradizione si è espressa usando un repertorio già consolidato, e allo stesso tempo rinnovandolo: i libri di Raboni pubblicati tra il 1966 e il 1980 sono di questo tipo; ma la sua opera successiva testimonia la crisi della stessa tradizione.

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