06 febbraio 2016 13:38

Visconti è il regista che ha meno senso della forma di chiunque faccia cinema oggi. Vedere Il Gattopardo è come osservare una serie di singoli fotogrammi, in un ordine non discernibile. Federico Fellini e Ingmar Bergman hanno in comune una straordinaria intelligenza visiva e una visione dell’esperienza umana di una banalità esasperante.

A mettere su carta questi giudizi non esattamente sfumati è una ragazza di nemmeno trent’anni, ma questo non è un post su Facebook, anche se – per la sommarietà, l’arroganza, la semplice ingiustizia – ne avrebbe tutta l’aria: è un pezzo di un articolo della metà degli anni sessanta di Joan Didion intitolato Non riesco a togliermi quel mostro dalla testa che si trova in Verso Betlemme, la prima raccolta di saggi di quella che la bandella della traduzione-ristampa del 2008 (Il Saggiatore) chiama “un’icona della letteratura americana”.

Scrivere della realtà, non tanto della politica quanto della cronaca, della vita sociale, dei costumi, farlo con fantasia e ironia, curando molto lo stile, e in questo racconto della realtà mettere molto di sé, non solo la propria voce ma anche la propria biografia, i propri gusti e disgusti – questo è un esercizio che si può chiamare reportage, o nonfiction, o personal essay, un esercizio che molti fanno, e bene, oggi, un po’ in rete, un po’ sui giornali che accettano contributi di una certa estensione e impegno. Molti scrivono così, oggi, ma Joan Didion è stata, se non la prima (c’è stato un mucchio di new journalism prima del New journalism), una dei primi.

Uscito nel 1968, Verso Betlemme è un libro che contiene alcuni pezzi eccellenti: per esempio il ritratto di Howard Hughes, con quel finale acutissimo, in cui Didion constatava come il villain Hughes eserciti sull’americano medio molta più forza d’attrazione dei tanti bravi milionari retti e socialmente responsabili che l’americano medio dice di ammirare, e come insomma tutti quanti finiamo per innamorarci non delle brave persone ma dei mascalzoni.

Oppure quella specie di pagina di diario in cui Didion provava a spiegare come si perde e come si riacquista, intorno ai vent’anni, il rispetto di sé. È anche un libro pieno di manierismi e di pose, tanto nello stile (la pagina di diario che ho citato comincia così: “Una volta, in una stagione secca, scrissi a grandi lettere su due pagine di un quaderno che l’innocenza finisce quando veniamo privati dell’illusione di piacere a noi stessi”: la giovane Didion aveva un debole per gli inizi lapidari, e condiva i suoi saggi di citazioni, qui Eliot, con lo zelo di una dottoranda) quanto nel contenuto.

Verso Betlemme ha questo titolo perché, scrive Didion all’epoca, “ormai da parecchi anni alcuni versi della poesia di Yeats mi ronzano nell’orecchio interiore come se vi fossero stati trapiantati chirurgicamente”.

Sono i versi del “centro che non tiene”, delle cose che cadono a pezzi e dell’onda fosca del sangue che dilaga: Didion non si vergognava di spostarli dal luogo e dal tempo in cui la poesia fu scritta – l’Europa devastata del 1919 – alla Beverly Hills del 1967, e di imbastire, a partire da indizi a dir poco evanescenti, tutta una lambiccata storia di minacce all’ordine esistente e di presagite sciagure: “Gli adolescenti vagavano da una città straziata all’altra, liberandosi di passato e futuro come i serpenti si disfano della pelle, ragazzi cui non erano stati mai insegnati, e ormai non avrebbero mai imparato, i giochi che avevano tenuto insieme la società” (il saggio che comincia in questo modo, e che dà il titolo alla raccolta, va poi avanti a raccontare di un gruppo di hippy drogati veramente simpatici, dei tipi da Grande Lebowski, ma lo fa con un moralismo che può andar bene forse per un editorialista di destra, non per uno scrittore).

Il Saggiatore traduce ora per la prima volta la seconda raccolta di Didion, The white album, uscita nel 1979, e l’impressione è che manierismi e pose siano più o meno le sole cose rimaste. Il tono è sempre quello di chi vive sull’orlo di un abisso, anche se in realtà passa il suo tempo abbastanza confortevolmente tra Malibu e le Hawaii. Da un lato c’è il fatto che verso la fine degli anni sessanta – “poco prima che venissi nominata Donna dell’anno dal Los Angeles Times” – Didion ha attraversato una serie di crisi nervose, come testimonia il referto psichiatrico riprodotto verbatim a pagina 14 del saggio che dà il titolo al volume.

Dall’altro c’è il fatto che a Didion, come generalmente agli intellettuali, piace guardarsi vivere in mezzo a un’apocalisse. Stare calmi, fare con pazienza la cronaca della normalità non è molto tentante: meglio puntare il radar verso qualche passata o futura disgrazia. “Ci trasferimmo in quella casa sull’autostrada l’anno che nostra figlia compiva cinque anni. L’anno che ne compiva dodici piovve finché l’autostrada crollò, e un suo amico annegò davanti alla spiaggia di Zuma, vittima del Quaalude”. Qui il nome esotico del sedativo Quaalude è usato come tropo: serve a creare un’atmosfera ominosa – il Male è sempre in agguato – attorno a quello che altrimenti sarebbe il sereno resoconto di un lunghissimo soggiorno marino.

La quarta di copertina elogia “la scrittura maieutica di Joan Didion, il suo incedere curioso dal particolare a un universale mai ‘detto’ né ‘saputo’”. Ma in The white album questa confusa intuizione dell’universale genera pagine così pretenziose da suonare comiche. Didion sembra considerare emblematico ed epocale praticamente tutto quello che le capita, come se ogni minuscolo intoppo della vita quotidiana rimandasse a qualche più funesta malattia del mondo.

Se sul pianerottolo di casa si presenta un tale che dice di essere il fattorino della Chicken Delight, anche se nessuno ha ordinato niente del genere, l’equivoco diventa subito un Simbolo di quel particolare momento nella storia della città di Los Angeles:

Erano talmente tanti in quegli anni gli incontri privi di qualsiasi logica tranne quella onirica! Nella grande casa di Franklin Avenue sembrava che molta gente andasse e venisse senza alcun rapporto con quello che facevo. Sapevo dov’erano asciugamani e lenzuola ma non sempre sapevo chi dormiva in ciascun letto. Avevo le chiavi ma non la chiave. Ricordo di aver preso 25 mg di Compazine una domenica di Pasqua e di aver preparato un pranzo enorme ed elaborato per un sacco di persone, molte delle quali erano ancora in giro per casa il lunedì. Ricordo di aver camminato a piedi nudi tutto il giorno sul logoro pavimento di legno di quella casa e ricordo Do You Wanna Dance sul giradischi, Do You Wanna Dance e Visions of Johanna e una canzone intitolata Midnight Confessions. Ricordo che una babysitter mi disse di aver visto la morte nella mia aura. Ricordo di aver parlato con lei dei motivi per cui poteva essere vero, di averla pagata, e di aver aperto tutte le porte finestre per poi andare a dormire in soggiorno.

“Stile brillante” è il sintagma che, novanta casi su cento, si trova associato al nome di Didion: “the finest woman prose stylist writing in English today”, secondo un parere dello scrittore James Dickey citato con favore da Michiko Kakutani in una recensione alla prima edizione di The white album, nel 1979. Ma questa prosa velleitariamente cool è brillante com’è brillante lo strass. E di questa stessa paccottiglia, di questi “I remember” usati come puntelli per tenere in piedi una prosa che altrimenti franerebbe perché troppo evanescente, troppo povera d’argomentazione, è pieno il libro: “Ricordo un periodo in cui i cani abbaiavano ogni notte e la luna era sempre piena” (rievocando la sera del massacro della banda Manson).

Ricordo, un giorno in cui camminavo sui colli, una donna che coglieva narcisi sotto la pioggia. Ricordo un docente che una sera bevve troppo e rivelò tutto il suo terrore e la sua amarezza. Ricordo la gioia vera che provai scoprendo per la prima volta come funziona la lingua, scoprendo per esempio che la frase più importante di Cuore di tenebra è un poscritto

(rievocando gli anni trascorsi all’università della California).

Qui, dato che l’autrice tace, limitandosi ad allineare i suoi ricordi, toccherebbe al lettore mettere ordine, spiegare cosa significa che “la luna era sempre piena”, o trovare il denominatore comune che lega insieme cose eteroclite come la donna che coglie i narcisi sotto la pioggia, il docente beone e il poscritto a Cuore di tenebra. Ma sarebbe uno sforzo inutile: questa è infatti una prosa che aspira non alla precisione ma all’evocazione, non al concreto ma al “poetico”, e che di fatto ha spesso l’enfasi e il languore di un mediocre poema in prosa.

Ma non c’è solo l’eccesso di drammatizzazione, non c’è solo la tendenza – che appesantisce anche le pagine di altri scrittori americani della sua generazione, come DeLillo – a trasfigurare in allegoria qualsiasi minuzia, come se ogni cosa che si vede o si sente o si tocca fosse lì solo perché Didion vi scoprisse misteriose risonanze simboliche che illuminano qualche aspetto della sua vita.

È un fatto, più ancora che di stile, di visione. Didion è così caparbiamente introvertita, così ripiegata sui suoi mali reali e sulle sue immaginarie sciagure, che le cose e le persone di cui parla finiscono per perdere concretezza, per diventare invisibili. Basta confrontare il reportage dalle Hawaii del 1966 (Lettera dal Paradiso, in Verso Betlemme) agli appunti di viaggio sempre dalle Hawaii messi uno dietro l’altro in The white album (Nelle isole) per vedere quanto si è ristretto l’obiettivo, quanto la realtà è arretrata di fronte all’invadenza dell’io della scrittrice che contempla la realtà.

Dopo aver dribblato le citazioni, le allusioni, il name dropping, le metafore bislacche, il lettore non si trova in mano niente. Questo niente, questo dissolversi delle cose nell’indistinto, è addirittura tematizzato, come una specie di sotteso principio di poetica. In visita alla diga Hoover, l’autrice è invitata da uno degli ingegneri a posare una mano sulle turbine: “La tocchi – ha detto il signor Reclamation –, e io ho eseguito: per un bel pezzo sono rimasta così, con le mani sulla turbina. È stato un momento speciale, ma talmente esplicito da non suggerire altro che se stesso” (corsivo mio).

In visita a una postazione di bagnini di Malibu guarda per un attimo la città dall’alto e osserva: “Era una di quelle settimane in cui Los Angeles somiglia tanto rischiosamente a se stessa da mozzare il fiato” (corsivo mio).

Joan Didion, 1977 circa. (Csu Archives/Everett Collection/Contrasto)

Gli estimatori di Didion amano questi attimi epifanici, queste estasi zen in cui le cose si rivelano semplicemente come se stesse: è tutto parte di quell’aura di eleganza e raffinata allusività che aleggerebbe sulla sua prosa.

Invece è solo del normalissimo kitsch. Sono kitsch molte delle sue metafore e delle sue similitudini – “Il sole calava dietro a una mesa con il fare definitivo di un tramonto nello spazio”.

È kitsch il suo uso delle citazioni: “Leggere molta Doris Lessing”, così comincia il suo saggio sulla scrittrice, “in un breve arco di tempo è sentire che l’originale segugio del cielo ha requisito l’attico. Gli altri ospiti della mente lei li disprezza con ardore. Si presenta per i pasti solo per liquidare come decadenti le preoccupazioni della casa per la bella scrittura” (una nota dell’edizione italiana spiega che il primo periodo allude “al poema [alla poesia?] di Francis Thompson Il segugio del cielo. Nell’opera, il segugio è Dio, che insegue senza requie il peccatore”; il secondo periodo potrebbe alludere agli ultimi versi di Gerontion, ai pensieri metaforizzati come “tenants of the house”; sui pasti e sulle preoccupazioni della casa non so che dire).

Ma, come accennavo, è spesso kitsch anche il modo in cui Didion guarda le cose, o per meglio dire, Didion fa spesso diventare kitsch le cose su cui posa lo sguardo. Partita per raccontare il lavoro dei bagnini sulla spiaggia di Malibu, si accorge di soffrire il mal di mare, così rinuncia a seguirli al largo, dove c’è da recuperare un pezzo di un motore caduto sul fondo. La invitano a tornare un’altra volta. “Io dissi d’accordo, e benché non ci sia più tornata non passa giorno senza che io pensi a Leonard McKinley e a Dick Haddock e a quel che fanno, a che situazioni affrontano, a che operazioni, a che acqua verde vetro..”. Stiamo parlando di bagnini.

Infine, è inevitabilmente kitsch là dove il kitsch è meno facile da evitare, cioè nel discorso sull’arte: i libri di Lessing, i quadri di O’Keeffe, quadri il cui splendore – leggiamo increduli – riflette “lo splendore del suo artefice”, perché “ogni pennellata posata o non posata” tradisce “il carattere dell’artista”, quadri che Didion vede in compagnia della figlia, che ha solo sette anni ma – come la madre – non ha difficoltà ad entrare immediatamente in comunicazione con l’Artista:

Una delle grandi tele di Sky above clouds quel giorno galleggiava sulle scale posteriori dell’Art Institute di Chicago […], e mia figlia la guardò immediatamente, corse sul ballatoio e continuò a guardare. ‘Chi l’ha disegnato? ’ sussurrò dopo un po’. Glielo dissi. Alla fine dichiarò: ‘Ho bisogno di parlare con lei’.

Quando uscì, nel 1979, Didion stroncò Manhattan di Woody Allen su The New York Review of Books. Il pezzo non è incluso in The white album ma vale la pena di leggerlo, perché oltre ad allineare tutti i manierismi della prosa di Didion (a cominciare dalla sintassi anaforica: “In the large coastal cities of the USA… In the large coastal cities of the USA… It was a summer in which… It was a summer in which…”), e oltre a rappresentare un caso clamante di miopia critica, contiene precisamente il genere di riserve che – mosse molto a torto ad Allen – si possono muovere con piena ragione all’autrice di The white album: egocentrismo, immaturità, smodato interesse per le proprie nevrosi, limitato interesse per le cose del mondo, mancanza di distacco e di autoironia, snobismo, citazionismo. Non manca niente.

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