29 aprile 2016 18:19

Quando nel 1970 il poeta e musicista afroamericano Gill Scott-Heron diceva che la rivoluzione non sarà trasmessa in tv, non aveva fatto i conti con Beyoncé.

Lemonade, il nuovo album dell’artista texana, uscito a sorpresa mentre il mondo piangeva la scomparsa di Prince, è stato universalmente salutato come una rivoluzione. Una rivoluzione nell’intrattenimento, nella distribuzione e nella fruizione della musica, una rivoluzione nella soul music, nel femminismo e nel modo di rappresentare genere e razza nella cultura pop. La statura mediatica di Beyoncé, nel giro di 24 ore, ha assunto proporzioni colossali. Non è più solo la più grande cantante pop soul della sua generazione: nei media è descritta come un incrocio tra Angela Davis e Nina Simone. È diventata Toni Morrison e i Public Enemy, è stata proclamata presidente, anzi regina, dell’utopistica Chocolate City cantata nel 1975 dai Parliament.

Nel videoalbum che accompagna Lemonade (trasmesso in esclusiva sul canale statunitense Hbo il 23 aprile e poi disponibile sulla piattaforma streaming Tidal, di proprietà del marito Jay-Z), Beyoncé appare come una figura granitica. La sua bellezza è tanto accogliente quanto aggressiva, tanto morbida quanto monumentale. Sono sessanta minuti di messa a fuoco di un personaggio che nella cultura pop, afroamericana e non, non si era mai visto.

Lemonade è la massima rappresentazione di cosa è diventata la pop music oggi: un enorme laboratorio in cui si forgiano identità culturali, razziali e sessuali. La Beyoncé di Lemonade è un avatar pronto a essere abitato dal pubblico che, proprio come nel film di Cameron, attraverso di lei può esplorare lati di sé inconfessabili o aspetti della contemporaneità difficili da spiegare.

Se proviamo a scrostare Lemonade dagli strati di interpretazione che gli sono stati versati addosso da centinaia di articoli usciti in questi giorni, quello che ci rimane in mano è un album pop. Un ottimo album pop che, idealmente, prosegue e mette a fuoco il discorso del precedente disco Beyoncé (anche quello uscito come videoalbum a sorpresa nel 2013). Grandi produttori, ottimi pezzi, molta coesione narrativa e una voce finalmente adulta e libera dai manierismi pop soul che hanno caratterizzato la prima parte della sua carriera solista. Lemonade per Beyoncé è un momento decisivo di autoaffermazione artistica.

Lemonade

Ma la rivoluzione? Dov’è esattamente la rivoluzione? Lemonade non è certo il primo concept album della storia della soul music. Anzi, come temi e sensibilità è il mashup di due concept album di Marvin Gaye. Lemonade parte amaro e abrasivo come Here, my dear (1978), incentrato su una brutta storia di divorzio, e dal privato trascende nel politico fino a diventare una specie di What’s going on (1971), il fondamentale tributo di Gaye al movimento dei diritti civili.

Dentro Lemonade c’è anche molta Millie Jackson, la ruvida diva del soul anni settanta che per prima ha cantato senza pudori il desiderio femminile e l’autodeterminazione sessuale e sociale delle donne afroamericane. È difficile non sentire nella nuova Beyoncé echi di Caught up (1974), un concept album di Millie Jackson sull’infedeltà coniugale vista attraverso gli occhi di una donna innamorata di un uomo sposato e molto, molto incazzata.

Ma Lemonade è soprattutto un concept album sull’identità e, insieme ad Anti di Rihanna e a Life of Pablo di Kanye West, chiude una specie di trittico che, visto nel suo insieme, ci racconta cos’è diventato l’album pop nel 2016.

Gli album contano perché mentre noi eravamo distratti da altro si sono espansi, sono mutati

La morte dell’album è stata annunciata più volte negli ultimi anni. Con l’arrivo dell’iPod e delle playlist personalizzate sembrava che sorbirsi dieci canzoni dello stesso artista, magari seguendo un ordine stabilito dall’artista stesso, fosse impensabile. Lo streaming sembrava aver dato il colpo di grazia al concetto di album: se la musica è una nuvola potenzialmente infinita che ci avvolge in ogni ora del giorno, che senso ha confinarla in un format angusto e decrepito come l’album?

Eppure, come disse Prince ai Grammy Awards del 2015: “Gli album contano ancora, come i libri e le vite dei neri”.

Gli album contano perché mentre noi eravamo distratti da altro si sono espansi, sono mutati, come un organismo che per sopravvivere impara nuovi trucchi. Lemonade è un album espanso e non solo perché si porta dietro un potente contenuto video (alla fine quella è solo un’evoluzione dei terribili cd-rom di Peter Gabriel degli anni novanta). È un album espanso perché arriva nelle nostre cuffie con un plug-in in più: la percezione di una rivoluzione. Lemonade, Life of Pablo e Anti sono, in modi diversi, tre manufatti culturali che arrivano a noi pieni di complessità, ma anche con le istruzioni per decodificarli. Sono tre classici plug and play, pronti all’uso.

In passato un album pop diventava epocale, iconico, simbolico, in una parola, rilevante, dopo molto tempo. Il disco usciva, veniva ascoltato, criticato, elaborato, interiorizzato e poi, mesi o anni dopo, diventava un classico. È successo con dischi dei Doors, dei Pink Floyd, di Michael Jackson. È successo con Nevermind dei Nirvana e con Grace di Jeff Buckley. Lemonade, ancor prima del primo ascolto, è già percepito come un classico. E proprio come l’iPod dei tempi di Steve Jobs, è arrivato nei negozi (reali o virtuali) come un gadget irrinunciabile, dotato di una sua idea di rivoluzione estetica già incorporata.

Anti, Life of Pablo e Lemonade ci insegnano che oggi gli album pop sono prodotti culturali complessi che incorporano in maniera fluida molti linguaggi, tra cui anche quello del marketing. La risposta pavloviana che mezzi d’informazione e pubblico hanno dato a Lemonade ne è la prova. La rivoluzione non sarà trasmessa in tv ma ci sarà comunque venduta in una bellissima confezione. E il bello è che ci piacerà un sacco.

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