10 ottobre 2016 16:16

Un filo sottile lega le due mostre, molto diverse tra loro, allestite alla Fondazione Prada di Milano in questi giorni. Five car stud di Kienholz (fino al 31 dicembre) e Uneasy dancer di Betye Saar (fino all’8 gennaio) raccontano due storie americane, ma da punti di vista diversi, quasi opposti. Lo sguardo sugli Stati Uniti dell’afroamericana novantenne Betye Saar sembra originarsi proprio dall’ultima, terribile tappa del percorso dedicato a Edward Kienholz (1927-1994). E visitare le due mostre una dopo l’altra è un’esperienza tanto scioccante quanto commovente.

Edward Keinholz (solo Keinholz dal 1972, da quando comincia a firmare i suoi lavori con la moglie Nancy Reddin) era nato nello stato di Washington da una famiglia di agricoltori fondamentalisti cristiani. Molto dotato come falegname e carpentiere, decise, contro il volere dei suoi, di studiare arte ma non prese mai un diploma. A metà degli anni quaranta si trasferì a Los Angeles dove si unì a un gruppo di artisti d’avanguardia. Del tutto eccentrico rispetto a ciò che stava accadendo nell’arte statunitense in quegli anni di espressionismo astratto trionfante (De Kooning, Pollock), Keinholz cominciò a mettere a fuoco una sua poetica dell’arte di assemblaggio massimalista e provocatoria. Anche lui pescava dal banale, dal quotidiano, proprio come gli artisti pop, ma i suoi reperti, i suoi objet trouvé non hanno nulla di ironico o di iconico. Diventano immondizia pericolosa, scarti marci di una società in putrefazione. L’estetica di Keinholz si fa negli anni sempre più violenta, barocca e contorta. Peli, capelli, stracci, bambolotti, peluche sporchi e colle viniliche colate che sembrano materiale organico.

Keinholz ha la stessa mano felice del Picasso scultore nell’assemblage della sua Natività (1961), ma qui non c’è la gioia ludica dei ready-made picassiani, c’è una febbrile fantasia da accumulatore folle che riesce a tirare fuori un quadro tardo gotico (con i Re Magi e tutto) da un ammasso di ferri vecchi.

Da sinistra a destra: The rhinestone beaver peep show triptych (1980) e The pool hall (1993) di Edward & Nancy Reddin Kienholz. (Delfino Sisto Legnani Studio, Per gentile concessione della Fondazione Prada)

Vedere un’opera come The pool hall (1993) lo stesso giorno in cui i mezzi d’informazione di tutto il mondo hanno pubblicato i commenti sessisti di Donald Trump fa un certo effetto. Una donna manichino decapitata è sistemata a gambe aperte su un tavolo da biliardo. La sua vulva spalancata fa da buca. Intorno a lei tre figure maschili mascherate nell’atto di giocare cercano di mandare, appunto, le loro palle in buca. Sono maschi bianchi che sembrano usciti dall’horror Halloween o dalla band nu metal Slipknot. È un quadro agghiacciante, la messa in scena barocca e simbolica di una banale violenza quotidiana a cui siamo assuefatti. “Io alle donne posso fare quello che voglio”.

Meno teatrale ma altrettanto violento è The bronze pinball machine with woman affixed also (1980). È un vecchio flipper trasformato in una sorta di cyborg. Dal gioco, proprio lì dove si dovrebbe infilare la monetina, spuntano due gambe aperte di donna, lisce e pornografiche, con tanto di scarpette con il tacco alto. Un invito a prendere il flipper (come effettivamente si fa quando si gioca) per i “fianchi” e mandarlo in tilt a colpi di anca. È un invito allo stupro, a un gioco per maschi in cui la femmina non solo non ha testa ma non è neanche umana, è una macchina a gettone con cui divertirsi. E se si rompe pazienza. Il flipper di Kienholz è parente stretto delle donne tavolo e delle donne sedia dello scultore britannico Allen Jones (1969), ma non ha la loro ironia e la loro (apparente) leggerezza pop. Loro almeno hanno la testa e possono rimandare a un immaginario di sesso sadomasochistico consenziente. Il porno-cyborg di Kienholz è solo un buco da riempire, una donna giocattolo da sbattere e da rompere. “Io le donne le afferro per la fica”, appunto.

Una via crucis atea
È nell’ultima sala che il mondo malato di Kienholz esplode in tutto il suo orrore. Nel buio, sotto i piedi non si sente più il pavimento liscio voluto dall’architetto Rem Koolhaas per la Fondazione Prada: c’è della sabbia che rende i passi difficoltosi e rallentati. All’improvviso ci si trova dentro a una scena orrenda, illuminata dai fari di cinque automobili in circolo. Sotto i nostri occhi sta avvenendo un linciaggio. Tre figure mascherate immobilizzano un uomo che grida. Una quinta figura ha un coltello e lo sta evirando. Poco lontano si vede l’albero dai grandi rami secchi su cui il poveraccio, finito il suo supplizio, sarà impiccato. Ci si può avvicinare quanto si vuole alle figure, spiarne ogni dettaglio. Le espressioni dei volti sono deformate e le maschere sembrano squagliarsi su quei visi animaleschi. La vittima del linciaggio è solo testa e gambe. Al posto del suo tronco c’è una vasca piena d’acqua in cui galleggiano delle letterine di plastica per bambini che potrebbero formare o non formare la parola nigger, negro. Poco più in là c’è un furgone con dentro una donna bianca che piange, sorvegliata da un uomo bianco che imbraccia un fucile. Da un’autoradio accesa arriva l’eco di una canzoncina anni cinquanta. Five car stud, un po’ Sacro Monte di Varallo e un po’ galleria degli orrori di Coney island, è l’ultima stazione di una via crucis atea senza nessuna promessa di resurrezione.

Five car stud (1969–1972) di Edward Kienholz. (Delfino Sisto Legnani Studio, Per gentile concessione della Fondazione Prada)

Uscire da lì per trovarsi nell’ala nord della fondazione Prada, dove è allestita la mostra di Betye Saar, è come uscire da un incubo. Anche Saar è un’artista statunitense, ed è coetanea di Kienholz. Se lui è stato marginale ed eccentrico, Saar è stata praticamente invisibile. La sua arte è stata apprezzata in circoli molto ristretti, quei canali underground – musei universitari, fondazioni, centri culturali periferici – in cui l’arte afroamericana, con i suoi contenuti postcoloniali, si muoveva come un fiume carsico al riparo dalle tendenze dell’arte contemporanea ufficiale. L’outsider art di cui si parla tanto oggi come arte degli emarginati o dei pazzi, è anche questo: l’arte di chi non ha mai avuto voce e ha cercato per decenni con fatica di ricostruire la propria storia.

Se Kienholz ha descritto il disfacimento del sogno americano come una carcassa di immondizia putrescente, Betye Saar ne raccoglie i pezzi uno a uno per ricostruire la memoria di un popolo che non ha mai avuto voce, i neri d’America. Se il lavoro di Kienholz è barocco e spettacolare, quello di Saar è intimista e raccolto.

Uneasy dancer di Betye Saar. (Roberto Marossi, Per gentile concessione della Fondazione Prada)

Anche Betye Saar raccoglie e assembla reperti, objet trouvé, ma non lo fa con lo spirito monumentale della scultrice, lo fa con la pietas di chi raccoglie le poche cose rimaste tra le rovine dopo una calamità naturale. Usa molte scatole che diventano scrigni per piccoli oggetti senza valore, spillette, foto sbiadite, piume, capelli, minuscoli dipinti. Questi assemblaggi sembrano i tesori di una bambina nascosti in una vecchia scatola di biscotti ma anche degli oggetti vudù, dei piccoli talismani da macumba.

Saar usa anche l’ironia, soprattutto negli assemblaggi che giustappongono le vecchie pubblicità dei prodotti Aunt Jemima con immagini storiche legate alla tratta degli schiavi. La sorridente e rotonda domestica nera, con il fazzolettone bianco in testa, diventa un simbolo di feroce colonialismo quando viene messa vicino ai disegni delle navi degli schiavisti stipate di uomini, donne e bambini africani.

L’arte di Saar è una specie di flusso di coscienza, di rituale in cui la donna afroamericana si riappropria del suo antico ruolo di custode della storia, di profeta, di sciamana e di guaritrice.

L’installazione The Alpha & the Omega (2013-2016) di Betye Saar. (Roberto Marossi, Per gentile concessione della Fondazione Prada)

L’ultima sala della mostra è un’installazione creata apposta da Saar per la Fondazione Prada. Ed è involontariamente speculare all’orrendo linciaggio che chiude la mostra di Kienholz. The Alpha & the Omega (2013-2016) è una stanza magica, un luogo in cui tutti i simboli che abbiamo visto sparpagliati qua e là in giro per la mostra tornano a casa. La chiglia della nave della tratta degli schiavi diventa un vascello celeste diretto serenamente verso l’aldilà. Una minuscola finestra si apre su un dipinto dello spazio che ricorda l’afrofuturismo di Sun-Ra e apre uno squarcio su una nuova dimensione metafisica piena di speranza.

L’artista novantenne, vicina alla fine della sua vita, sembra dirci che andrà tutto bene. Basta non scoraggiarsi mai e raccogliere i pezzi sparsi delle nostre identità frantumate, della nostra umanità a pezzi e tenerceli stretti, come il più caro dei tesori.

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