07 novembre 2016 13:31

Leggendo sul Guardian questo pezzo di Zadie Smith sul rapporto tra danza e scrittura ho fatto finalmente mente locale: la migliore letteratura sulla musica pop degli ultimi tempi la fanno le donne. Le giornaliste o le autrici che si sono occupate di musica sono sempre esistite e spesso hanno fatto un ottimo lavoro, ma è come se ora avessero trovato una loro voce, più nitida, coraggiosa e distinta.

Forse è una conseguenza del fatto che l’identità (politica, etnica o di genere), è un nodo centrale della cultura pop contemporanea. Le donne che oggi fanno musica o che scrivono di musica hanno imparato sulla loro pelle quanto sia difficile essere prese sul serio come musiciste, autrici, produttrici, artiste, dj, critiche o giornaliste, in un mondo che in buona parte le vede ancora benevolmente come fan, groupie o muse ispiratrici.

È una difficoltà che incontrano fin da giovanissime, da quando decidono chi essere in base alla musica che ascoltano. Una scelta che le porterà a vestirsi in un certo modo, a parlare in un certo modo, ad avere un certo tipo di rapporti con gli altri. Una scelta che molto probabilmente è stata sbeffeggiata, criticata e, in qualche caso attivamente ostacolata. La carica identitaria della musica pop per una ragazza è doppiamente più forte che per un ragazzo: perché molto spesso scegliere di prendere sul serio la musica (i concerti, i dischi e le t-shirt, le fanzine) per loro è già un atto di ribellione. E di forte autodeterminazione.

Scritture molto diverse tra loro come quelle di artiste come Tracey Thorn, Kim Gordon e Kristin Hersh, s’intrecciano a quelle di giornaliste o critiche come Daphne Brooks, Geeta Dayal o Jessica Hopper (cito a caso autrici che sto leggendo con piacere in questo periodo), dando l’idea di una nuova consapevolezza di cosa significhi essere donna e scrivere di musica.

Ogni autrice ha la sua storia, la sua età, la sua cultura e il suo stile, ma in comune vedo alcuni elementi di base. Prima di tutto la liberatoria assenza di quella pedanteria enciclopedica che rende sgradevole buona parte del classico giornalismo musicale. E poi una capacità di far entrare nella loro scrittura il dato autobiografico, l’aneddoto personale, in certi casi anche una forma di lessico privato, senza mai cadere nell’irrilevanza e mantenendo salda una lucida visione d’insieme.

Tutte queste caratteristiche, con in più una buona dose di ironia, le ho trovate in uno dei più bei libri musicali del 2016, I am not with the band di Sylvia Patterson (Little, brown).

Patterson non è una fan, è una giornalista musicale che fa il suo lavoro con coraggio e piglio anarcoide da ex punk di provincia

Sylvia Patterson è una giornalista musicale scozzese. È stata caporedattore del quindicinale Smash Hits fino alla fine degli anni ottanta ed è poi diventata freelance per Guardian, Nme, The Word, Q, Interview e per l’indimenticato The Face. Patterson ha intervistato qualunque popstar vi venga in mente, dagli Aztec Camera a Mariah Carey, passando per Prince, Madonna, Kylie Minogue, Beyoncé, New Order, Blur, Primal Scream e Oasis.

Il titolo del libro, che sfotte apertamente I am with the band di Pamela Des Barres, la mitopoiesi tutta sesso e rock n roll della figura della groupie, è già una dichiarazione d’intenti. Patterson non è una groupie e non è una fan, è una giornalista musicale che fa il suo lavoro con una buona dose di coraggio e piglio anarcoide da ex punk di provincia.

Quello di Smash Hits, negli anni ottanta, era un ambiente surreale. Era un giornale per ragazzini che parlava di musica pop, era impaginato come una fanzine postpunk ma con un sacco di colori in più. Usava un lessico assurdo e spesso aggettivi e parole venivano inventati di sana pianta. Con sorpresa non solo dei lettori ma anche degli artisti che venivano sottoposti, nelle interviste, a raffiche di domande demenziali.

Gli uffici londinesi erano pieni di promo, demo e buste imbottite. Le case discografiche mandavano ancora tutto in vinile e in cassetta e le foto ufficiali degli artisti arrivavano in grandi plasticoni che finivano ovunque. Smash Hits in quegli anni vendeva una quantità di copie in edicola che oggi sarebbe impensabile per qualunque rivista cartacea (più di un milione ogni due settimane nel 1988).

Patterson è un fiume in piena quando descrive quegli anni: non prendeva sul serio niente e nessuno tranne il suo giornale che lei ha contribuito a trasformare in quella sghemba, colorata e infantile bibbia del pop che oggi ricordiamo con tanta nostalgia. Per alcuni di noi in Italia Smash Hits è stato un antidoto al provincialismo serioso da “Giganti del rock a dispense” di tanta stampa musicale, soprattutto dei quotidiani.

Dove altro potevi leggere un’intervista a Jon Bon Jovi che arrivava a sfiorare la rissa col giornalista? Dove altro trovavi una rubrica ferocemente ironica sulla “storia del rock” stampata in corpo minuscolo in un colonnino introvabile? Dove potevi leggere un’intera pagina dedicata a “posti strani in cui le star hanno vomitato”?

Dove altro leggevi un’intervista alla “italian Euro-pop trillster Spanga” (ovvero Spagna, lo spelling dei nomi italiani non è mai stato il loro forte) in cui la poveretta era presa in giro perché aveva un gatto di nome Bimbo, che, a sua insaputa, in inglese suonava come “stupida bionda”?

L’unica regola era ridere e far ridere: ogni tanto qualcuno s’incazzava, e addirittura un matrimonio (quello di Bernard Sumner dei New Order) è andato in crisi per colpa di quelle interviste così sciocche, eppure nessuno si è fatto davvero male e i dischi e le riviste di carta vendevano come mai prima nella storia.

Patterson ha avuto però un brusco risveglio: con la fine degli anni ottanta le cose sono cambiate. Davanti alla scelta della proprietà di cambiare direzione editoriale, decise di lasciare il giornale. E Smash Hits è diventato un teen magazine più inoffensivo e banale, con sempre meno musica e sempre più personaggetti televisivi.

Poco male: il regno Unito era il posto giusto in cui essere una giornalista musicale: stava esplodendo il Brit Pop, con il suo carico di ottima (e pessima) musica, di droghe e di epiche rivalità. E Patterson era lì, pronta a buttarsi nella mischia. Era una freelance squattrinata ma giornali ancora forti e case discografiche munifiche e danarose la facevano volare in giro per il mondo a intervistare chiunque e sempre a modo suo, con domande scomode, corrosive e demenziali. Il suo stile giornalistico ruvido e ironico restava invariato, ma col tempo artisti e industria avevano sempre meno voglia di giocare.

Scoppiata anche la bolla del Brit Pop, Patterson si rende conto che il paesaggio intorno a lei è cambiato. Le certezze, sia economiche che artistiche di un tempo, si sono sgretolate: è finita l’epoca degli artisti (per quanto risibili e fasulli) ed è cominciata quella delle “celebrities”. E lei descrive molto bene la differenza.

L’artista ha solo la propria arte da difendere, la musica, i video, i capelli, l’appartenenza a una certa scena. La celebrità è un brand e non si espone su nulla per paura di perdere lucrosi sponsor. Le interviste sono addomesticate e orchestrate da uffici stampa e gente di marketing. Quando Patterson intervista una Beyoncé ancora ragazzina, durante il primo tour europeo delle Destiny’s Child, si rende conto di avere davanti una nuova razza di artista pop. Beyoncé non ha neanche vent’anni ma è addestrata ad aggirare qualunque tipo tipo di domanda e a non dire assolutamente nulla. Nella sua pervicace normalità di ragazzona texana timorata di dio è una fortezza impenetrabile. “Durante le nostre conversazioni era più ologramma che umana”, scrive di lei, “ed era un dono naturale il suo, perché eravamo ancora agli albori del concetto dell’artista come brand”.

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“Mai avrei pensato che il giornalismo musicale sarebbe diventato obsoleto”, scrive Patterson verso la fine del libro. Quando dalla musica pop ripulisci, come con photoshop, qualunque tipo di trasgressione generazionale, sociale, sessuale o politica, ottieni fenomeni come i Mumford & Sons che, intervistati da Patterson, arrivano candidamente ad ammettere che a loro non interessa essere culturalmente rilevanti. “Non voglio che la gente ascolti ciò che diciamo”, le dice Marcus Mumford: “davvero, non penso sia importante. Se alla gente piace la nostra musica bene, ma non sono certo qui a parlare per la mia generazione. Voglio solo fare musica e solo di questo voglio parlare”. E pensare che Sylvia Patterson, vent’anni prima, era lì a disquisire di punk, marxismo e skinhead con gli Housemartins per un giornaletto per teenager.

Nelle ultime pagine del libro la vita personale complicata di Patterson si intreccia al tragicomico declino della cultura pop come la conosceva. La scena in cui vola a Los Angeles per il lancio di un nuovo profumo firmato dai coniugi Beckham (i massimi esponenti della celebrità usata come brand) è amara ed esilarante allo stesso tempo.

A venti giornalisti viene offerto un soggiorno nel fastoso Bel Air Hotel (già la casa di Marilyn Monroe), una grande festa e la possibilità di salutare la “coppia reale” in una specie di sala del trono in cui vengono ammessi uno a uno. Unico argomento concesso per l’intervista: le nuove fragranze dei Beckham per lui e per lei. Fragranze che Patterson descrive così: “Lui: un dopobarba Brut 33 degli anni settanta, Lei: Charlie, un profumo da supermercato per ragazzine degli anni ottanta”. In queste pagine, che sono un capolavoro di equilibrio tra cronaca mondana e riflessione socio politica, Patterson dà il meglio di sé.

I am not with the band è una lettura esilarante e una riflessione amara. Patterson ha il coraggio di intrecciare sue vicende personali, anche molto dolorose, alla cronaca scoppiettante di trent’anni di musica pop vissuta in trincea. La forza della sua scrittura sta tutta in questa continua, urticante frizione tra l’episodio privato, la delusione personale e professionale, e il delirante mondo pubblico in cui si muove. Patterson non è mai assolutoria, né con le persone che descrive né tanto meno con se stessa. “Se i tuoi artisti preferiti ti deludono”, conclude, “è prima di tutto colpa tua”.

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