13 dicembre 2016 13:11

C’erano una volta gli album live. Un caposaldo della discografia degli anni sessanta, settanta e ottanta che oggi, nell’era di YouTube e dei dvd inclusi ai cd per renderli più appetibili, facciamo fatica a capire.

Eppure chi comprava un album dal vivo di James Brown, di Sam Cooke, dei Fleetwood Mac, di Tina Turner, dei Depeche Mode o di Claudio Baglioni sapeva esattamente cosa comprava e perché. Comprava un momento congelato nel tempo: un’esibizione live, con il rumore della folla, le improvvisazioni della band, le stecche, le battute e i cori estemporanei. Per artisti e discografici l’album live era un modo per spremere un altro po’ di soldi da un tour in attesa di un nuovo lavoro di studio, e per i fan era un feticcio.

Prima che l’immagine video fosse onnipresente e che tutto quello che facevano gli artisti pop avvenisse praticamente in diretta sui social, i concerti erano oggetto di fantasie e di speculazioni. I tour non capitavano sempre in Italia e se arrivavano erano cari e “pericolosi”; se avevi quindici o sedici anni era difficile che i tuoi genitori ti permettessero di andare a vedere i Clash, Lou Reed o David Bowie.

“David Bowie esce nudo da una conchiglia”, “Stevie Nicks sniffa da un vassoio d’argento che le viene portato da un roadie”, “Siouxsie ha interrotto Spellbound e ha preso a pugni uno skinhead”, “Prince ha cacciato dal Palatrussardi una tipa che non era vestita pesca e nero come da istruzioni”. Prima degli smartphone e prima che ogni istante della nostra vita fosse registrabile, i concerti diventavano una fluida materia mitologica in cui fantasia e realtà si trasmettevano con un telefono senza fili fuori controllo.

Avevi sempre un amico di o un cugino di che era stato a questo o a quel concerto e gli album live, o più spesso dei bootleg malamente registrati, se andava bene, dall’altezza del mixer, erano le fondamenta su cui costruire un castello di fantasie. Ci s’immaginava com’erano vestiti gli artisti, come si muovevano sul palco, ci s’immaginava di essere lì sudati in mezzo al pubblico a cantare. Ancora più spesso, a porte rigorosamente chiuse, si faceva finta di essere Bowie, Lou Reed o Madonna. È incredibile quanti oggetti della casa potessero essere trasformati in microfoni da impugnare quando scattava il boato del pubblico da un buon disco live. Una spazzola, una scopa, un fon. Anche la coda ritta di un ignaro gatto di passaggio.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Quando Kate Bush ha annunciato che il suo album live Before the dawn, documento delle 22 repliche del suo ritorno alle scene dopo 35 di anni di silenzio, non avrebbe avuto nessun dvd incluso, i fan si sono stupiti.

Ma come? Le recensioni e i fortunati che hanno potuto trovare un biglietto per gli show all’Hammersmith Apollo, parlavano di uno spettacolo visivamente incredibile. Si è favoleggiato di marionette a dimensione umana, di uomini pesce, di un elicottero. E anche nell’epoca di YouTube, di Vine e delle dirette Periscope, è bastata la richiesta dell’artista dal suo sito ufficiale: “Per favore niente telefoni, niente foto e niente registrazioni. Sarà un momento unico da goderci insieme”. I fan hanno obbedito e, a parte qualche foto ufficiale e uno stralcio rubato di Cloudbusting, di quegli show non si era visto né sentito nulla. Un miracolo di controllo dovuto forse anche al carisma di Kate Bush che ha dimostrato di essere in grado di giocare un’altra partita, con le sue regole.

Before the dawn è quindi un classico album live: solo audio, niente dvd, niente blu ray, niente tracce nascoste con contenuti video. C’è solo un libretto con qualche foto di un palcoscenico che visto così, senza sapere nulla, sembra un misto tra Harry Potter, le Cronache di Narnia e il castello di Enya.

Lo spettacolo è stato ripreso da una troupe video, ma per volontà di Kate Bush noi ora abbiamo solo la musica per ricostruire cos’è stata la sua apparizione, dopo 35 anni di assenza, su quel palcoscenico di Londra. Forse il video uscirà tra dieci anni o forse mai e a noi non resta che usare le orecchie e, naturalmente, l’immaginazione.

Appena si sente il boato del pubblico che la saluta è chiaro: non aver incluso alcun documento video è stata una scelta artistica precisa. Esiste solo la musica e dentro la musica l’attenzione è tutta concentrata sulla voce di Kate. È meno eterea che nei dischi, più grande, più profonda, più matura ma è perfettamente intonata. Il tempo di apparire sul palco e fa fuori subito le greatest hits. Hounds of love, Running up that hill e King of the mountain si susseguono torrenziali e generose e il pubblico assetato se le beve. Anche se l’arrangiamento di King of the mountain è pessimo e trasforma quello che era un etereo, dondolante reggae in una power ballad caciarona, non importa. Kate Bush si è materializzata nel nostro mondo e sta cantando per noi. Mancano Wuthering heights, The man with the child in his eyes e chissà quante altre ma questo è il suo gioco: guida lei, sa lei dove portarci. Sentirla cantare oggi quelle canzoni è sconvolgente: a distanza di decenni Kate abita ancora quei personaggi: la fanciulla turbata dalla piccola volpe ancora palpitante catturata dai cani (Hounds of love) e l’incantesimo d’amore che sdoppia i due amanti e ne scambia i ruoli (Running up the hill) sono rievocati con forza e sorprendente freschezza.

Lo spettacolo procede con due suite, due atti teatrali: uno è The ninth wave (l’intera seconda facciata dell’album Hounds of love del 1985) e l’altro, quello finale, è A sky of honey (una parte dell’album Aerial del 2005). Kate qui ha ancora più spazio per espandere i suoi personaggi e i suoi mondi, libera dal dovere di sciorinare i suoi più noti successi pop. Sono canzoni preziose, con cui ogni fan ha un rapporto intimo e lei, per la prima volta, le porta fuori alla luce del sole, le fa espandere. Sentirla cantare And dream of sheep e Hello Earth ha qualcosa liberatorio: dunque queste canzoni esistono, non le abbiamo immaginate e basta.

Il concerto finisce con un inchino, Cloudbusting, quel bolero pop che fu un grande successo di Mtv nel 1985 e che rimane un classico del repertorio di Kate Bush. Il pubblico la canta in coro con lei e noi, che sentiamo il disco in cuffia, ascoltiamo quegli arpeggi di synth che sono ancora lì, con lo stesso suono e lo stesso riverbero degli anni ottanta. Oggi è un suono vecchio, brutto, quello degli archi simulati da un Fairlight CMI. All’epoca non ci accorgevamo di quanto certi passaggi di tastiera di Cloudbusting somigliassero a quelli di Shout dei Tears for Fears, eppure non importa: Kate ha voluto quell’arrangiamento tale e quale nel 2014. E chi ha detto che il Fairlight non ha un’anima? Kate Bush incastra quel suono datato nei suoi nuovi arrangiamenti live con l’orgoglio di chi, nel salotto di casa, non si vergogna di avere un souvenir dal gusto discutibile, ricordo di una persona cara che magari non c’è più.

In un’epoca di all you can eat culturale, di tutto e subito massimalista, Kate Bush ha dimostrato che il mistero, l’aspettativa e la mistica pagano ancora nella musica pop. Forse solo lei poteva. Sicuramente solo lei lo ha fatto.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it