22 gennaio 2017 12:04

Il nuovo assetto della Galleria nazionale di arte moderna di Roma ha fatto discutere. Time is out of joint (questo il titolo shakespeariano dell’allestimento-mostra che sarà aperto fino al 15 aprile) è una specie di remix della collezione del museo che ripropone opere che vanno dal neoclassicismo ai giorni nostri senza seguire un criterio cronologico. Ma, in verità, senza seguire neanche un criterio museale chiaramente leggibile.

Il blog Finestre sull’arte ha ricostruito il dibattito molto acceso che c’è stato sulla vicenda: prima con una lunga intervista allo storico dell’arte Claudio Gamba, decisamente scettico, e poi con una seconda intervista (faticosamente ottenuta) alla direttrice del museo Cristiana Collu che difende il suo operato.

Le accuse più frequenti mosse a Time is out of joint la indicano come un’operazione superficiale, che ha fatto tabula rasa della storia molto stratificata di una collezione importante, per trasformarla in una specie di biennale d’arte contemporanea, in un contenitore di installazioni più che in un percorso museale vero e proprio. Cristiana Collu, dal canto suo, dice che il nuovo allestimento è in tutto e per tutto un tassello nella storia della collezione e che liberare le opere dalla gabbia cronologica della storia dell’arte è una maniera per coinvolgere lo spettatore in un modo diverso, più contemporaneo e più emozionante.

La sensazione che si ha visitando la galleria è che non solo il tempo sia fuori dai suoi cardini ma anche tante altre cose. “Il mondo è fuor dai cardini”, dice Amleto, “ed è un dannato scherzo della sorte ch’io sia nato per riportarlo in sesto”.
Collu ha perfettamente ragione quando dice che lo sguardo dello spettatore è un elemento fondamentale nel meccanismo di funzionamento di un’opera d’arte. E ha ragione anche quando dice che la storia dell’arte non è più l’unica griglia di riferimento di cui disponiamo.

Un giorno guarderemo alla storia dell’arte e alle sue anguste categorie come oggi guardiamo alle teorie colonialiste o suprematiste

Nel settembre del 2016, in occasione della mostra The keeper al New Museum di New York, Jerry Salz sul New York Magazine parlava di “tirannia della storia dell’arte” e diceva che l’idea di una traiettoria temporale tesa al costante miglioramento di tecniche e linguaggi artistici è falsa e dannosa. Parlava di “fondamentalismo intellettuale” e diceva che un giorno guarderemo alla storia dell’arte e alle sue anguste categorie come oggi guardiamo alle teorie colonialiste o suprematiste.

È inevitabile e anche giusto quindi che l’allestimento di un museo moderno e bisognoso di rilancio come la Galleria nazionale s’inserisca, anche con forza, in questo dibattito. “Oggi il museo ha smesso di essere un luogo di contemplazione ma è diventato un luogo in cui succedono delle cose”. Lo scrive il critico d’arte Boris Groys nel suo libro In the flow in cui riflette sul destino dell’opera d’arte immessa nel flusso smaterializzante di internet. E di cose ne succedono tante in Time is out of joint. Così tante che è difficile trovare un filo di lettura univoco.

Galleria nazionale di arte moderna di Roma. (Giorgio Benni)

Quando si entra nella grande sala con l’Ercole e Lica di Canova (1795-1815) e i 32 mq di mare circa di Pino Pascali (1967) l’emozione di cui parla Collu nella sua intervista si percepisce chiaramente. La luce è abbacinante e la monumentale scultura di Canova sembra riflettersi sulla superficie turchese del mare di Pascali. Sul fondo c’è anche Spoglia d’oro su spine d’acacia, un grande lavoro del 2002 di Giuseppe Penone. Il piacere che si ha nell’essere immersi in quello spazio è quasi epidermico. Non è importante come e se opere così diverse dialoghino tra di loro, la nostra attenzione passa da una superficie all’altra, da un materiale all’altro, come la pallina di un flipper.

Si continua a vagare per le sale della galleria con la voglia di un altro sballo estetico ed emotivo come quello. Il cortocircuito tra Canova e Pascali ci è piaciuto e ne vogliamo ancora. Il resto della visita è un giro sulle montagne russe. Per chi conosce bene la collezione sembra di camminare in un sogno: è casa nostra, la riconosciamo, ma le stanze sono disposte in modo diverso, ci sono botole e anfratti di cui ignoravamo l’esistenza e alcune cose sembrano molto più grandi di come ce le ricordavamo e altre molto più piccole.

Quando il nostro sguardo scivola sulla tela dei Vespri siciliani di Francesco Hayez (1846) succede una cosa strana: ci aspettiamo che “succedano delle cose” e invece Hayez è lì, con la sua pittura di storia e i suoi polverosi valori risorgimentali. In quel contesto sembra una pagina di sussidiario, un’illustrazione. Forse il limite di un allestimento emotivo, epidermico e “out of joint” come quello di Collu è tutto lì: un’opera dentro a un museo è già decontestualizzata, è già tirata fuori dal flusso del tempo, forzarla in una sorta di installazione può farle correre il rischio di essere spenta. Come con un interruttore on/off. E su Hayez, sui macchiaioli, sui simbolisti e su tutta la scultura neoclassica, l’interruttore della Galleria nazionale sembra sempre su off.

La scultura neoclassica nelle sale della Galleria nazionale è usata come un arredo. Come in certe vetrine o come in certe discoteche anni ottanta

In questo allestimento molti pezzi forti della collezione sono ridotti a superfici e non sembrano più in grado di raccontare né la loro storia né quella del museo.
La scultura neoclassica, in particolare, è usata come se fosse una specie di meme. L’escamotage di usare statue mitologiche a figura intera come se fossero spettatori di ciò che accade nelle sale del museo può sembrare divertente. Forse si cita la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto o forse no: quello che è certo è che la scultura neoclassica nelle sale della Galleria nazionale è usata come un arredo. Come in certe vetrine o come in certe discoteche anni ottanta con i loro capitelli corinzi di gesso e i loro architravi fittizi.

Eppure la scultura neoclassica racconta una parte importantissima della storia del museo romano. La piazza lì fuori, dove si fermano i tram, si chiama piazza Thorvaldsen per una ragione. Una delle caratteristiche uniche della Galleria nazionale di arte moderna era quella di raccontare il percorso accidentato che ha avuto il moderno a Roma, la città simbolo e roccaforte della classicità. Depotenziare così la scultura neoclassica innesca una reazione a catena che impedisce al visitatore di seguire quel filo, quello del rapporto ogni volta reinventato e sempre sofferto con l’antico, che unisce i Sartorio, i De Chirico, gli Scipione, i Mafai ma anche i Morandi, i Castellani e i Burri disseminati per le sale-evento del museo.

Galleria nazionale di arte moderna di Roma. (Giorgio Benni)

Alcune volte gli accostamenti tra opere diverse funzionano, molto spesso lasciano solo perplessi. Mettere l’urinatoio di Duchamp (1917) vicino alla scultura africana e dell’Oceania è proprio quel tipo di atto scolastico e didascalico che Collu dice tanto di voler evitare. Mettere una light box del 2012 di Luca Rento con una mucca che fa pipì accanto al grande quadro Alla stanga (1886) di Giovanni Segantini è una provocazione? Se sì, è poca cosa. Se invece le due opere sono giustapposte solo perché rappresentano entrambe delle mucche forse i criteri con cui le collezioni sono state remixate vanno ricalibrati.

Un’occasione persa
Un’altra cosa che stupisce, al di là dell’allestimento di Time is out of joint, è come la Galleria nazionale abbia perso l’occasione di innovare davvero nei luoghi in cui avrebbe potuto osare di più: il web e l’app per gli smartphone. Mentre nelle sale del museo si scardina (giustamente) la storia dell’arte, sul sito esiste ancora la categoria “capolavori”che rimanda subito a un lessico da collezionabili da edicola tipo i “Giganti dell’arte a dispense”.

Le informazioni date dall’app, una volta che puntiamo lo smartphone sull’opera che ci interessa e riusciamo a scansionarla, sono ridotte all’osso e, per di più, etichettano l’opera in base allo stile: divisionismo, futurismo, simbolismo, realismo… come il più tradizionale dei manuali. Ribadendo, in un luogo virtuale come quello di un’app che si sarebbe prestato a spericolate sperimentazioni didattiche, tutte quelle semplificazioni che il nuovo allestimento del museo si sforza di smontare. La sezione “Gioca” dell’app è un quiz in stile “Sapientino” in cui i più vieti luoghi comuni nozionistici sulla storia dell’arte sono scodellati senza alcuna ironia al (si suppone giovane) visitatore. Siamo ben lontani dalla sperimentazione del Louvre con le consolle di videogiochi portatili Nintendo 3ds: anche lì si poteva fare di più ma almeno si offriva un assaggio di come la realtà aumentata può trasformarsi in un appassionante strumento didattico.

In conclusione Collu ha fatto un’operazione coraggiosa. Ha corso molti rischi e ha commesso molti, evidenti passi falsi. Eppure ha sollevato una questione fondamentale: cos’è oggi un museo? Qual è il suo ruolo nella società? In che modo un museo pubblico deve interagire con i cittadini? Che tipo di esperienza deve offrire a un visitatore? Deve solo intrattenere? Deve custodire? Deve insegnare? Sono tutte domande vitali, soprattutto oggi in cui tanto si parla, in modo anche un po’ allarmante, di “capitalizzazione dei beni culturali”. E mai come oggi è fondamentale un dialogo su questi temi tra cittadini e istituzioni.

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