18 marzo 2017 12:20

Per il centenario della rivoluzione russa la regista britannica Margy Kinmonth ha realizzato un documentario su trentacinque anni di arte sovietica, dal big bang del 1917 al 1953, anno della morte di Iosif Stalin. Revolution. New art for a new world traccia la parabola delle avanguardie russe partendo dall’inizio della rivoluzione, passando attraverso la Nep (la nuova politica economica voluta da Lenin nel 1921), fino al brusco ritorno al realismo dell’epoca staliniana.

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In modo suggestivo, ma forse storicamente un po’ affrettato, Kinmonth parte, letteralmente, da un buco nero: il Quadrato nero dipinto da Kazimir Malevič nel 1915. Un’opera che è la negazione di qualunque figurazione e di qualunque compromesso con la realtà, una chiave di lettura per entrare nella testa di un gruppo di artisti rivoluzionari che, negli anni tra il 1910 e il 1921, stavano reinventando non solo un linguaggio, ma il mondo intero intorno a loro.

Il documentario di Kinmonth ci fa capire da subito che qui non si parla di arte e politica o di arte e rivoluzione come di due entità separate, due vasi più o meno comunicanti. Per gli artisti russi dei primi due decenni del novecento, l’arte e la rivoluzione erano la stessa cosa. La pittura non si limitava a raccontarla ma era la rivoluzione stessa. Gli artisti, come i bolscevichi, dovevano fare tabula rasa del passato per ricominciare tutto da capo.

Quadrato nero, Kazimir Malevič, 1915. (Foxtrot Films)

L’aggressivo astrattismo suprematista di Malevič, i montaggi cinematografici di Dziga Vertov, i collage di Aleksandr Rodčenko, l’anticubismo di Pavel Filonov, pur creando immagini molto diverse tra loro, avevano una cosa in comune: erano un linguaggio nuovo creato per descrivere un mondo nuovo. E all’inizio non si parlava neanche di propaganda: quelle opere sembravano nascere spontaneamente dal radicale sovvertimento della politica russa, dal sovvertimento dei rapporti di potere e della realtà stessa. Cubismo, futurismo, raggismo, astrattismo non erano solo sperimentazioni: erano l’unico modo possibile per fotografare una realtà incandescente che sembrava non avere altra forma che la sua continua, disordinata trasformazione.

Quando si arriva agli anni venti, quell’arte così vitalistica, elettrica e innovativa ha cominciato a trasformarsi in un raffinato strumento di propaganda. Filmati d’epoca mostrano i treni agitprop dipinti che attraversavano un paese immenso con radio a tutto volume e lanciando volantini dalla grafica modernissima. La propaganda sovietica era arte, spettacolo e tecnologia, in una sintesi di linguaggi che nel futuro vedremo impiegata nel cinema, nei concerti rock, nei video musicali e nei videogame.

Con la morte di Lenin e con l’ascesa di Stalin, l’arte cambia ancora. È il trionfo del realismo socialista: il magma incandescente della rivoluzione si è freddato e agli artisti di regime non è richiesto altro che rappresentare la grandezza dell’Unione Sovietica attraverso un’arte realistica, monumentale e accademica. Stalin era ritratto ovunque, dalle grandi tele alle scatole di fiammiferi, ma non posava mai. Agli artisti venivano date solo delle fotografie. L’unica volta che Stalin è stato ritratto da un artista “dal vivo” è stato nel 1953, quando era composto nella bara. Lo ricorda ironicamente una discendente di Petr Kotov, uno dei più importanti esponenti del realismo socialista.

Fantasy, 1925, Kuzma Petrov-Vodkin. (Foxtrot Films)

Una delle cose più riuscite di questo documentario è il modo in cui Kinmonth illumina e inquadra i dipinti. Dopo una prima visione d’insieme, la camera scende nel dettaglio, anche di taglio, mostrando una matericità della pennellata che difficilmente s’immagina in opere rigorose e geometriche come quelle, per esempio, di Malevič. La regista ha avuto accesso alle collezioni di grandi musei come l’Ermitage di San Pietroburgo e la galleria Tretyakov di Mosca, in alcune scene si entra nei depositi di questi grandi musei e s’inquadrano opere rare che non sono normalmente in mostra.

Alle voci narranti della regista stessa e di alcuni attori che leggono stralci di testi degli artisti o degli intellettuali dell’epoca, Kinmonth alterna molte interviste. I curatori dei musei e gli storici dell’arte aiutano a contestualizzare i lavori, mentre i discendenti (nipoti o bisnipoti) degli artisti danno la dimensione più privata di quel momento corale che fu la prima ondata dell’avanguardia russa. Quando il documentario arriva a raccontare le purghe staliniane degli anni trenta, le testimonianze dei discendenti si fanno più urgenti e da semplice curiosità diventano una cronaca tutta privata del dramma di quegli artisti che venivano arrestati e fatti sparire. Spesso senza nessuna ragione apparente.

Peccato che Kinmonth si senta in dovere di interpolare al materiale ricchissimo che ha a disposizione delle inutili ricostruzioni con attori e figuranti. L’utilizzo di due danzatori a torso nudo per inscenare, in maniera stilizzata e un po’ leziosa, la fucilazione di alcuni artisti durante le purghe staliniane è una caduta in un kitsch abbastanza inspiegabile.

Revolution ci fa riflettere anche su quello che non vediamo nel film, su tutto quello che è successo dopo. Gli artisti delle avanguardie russe hanno inoculato nella cultura occidentale un virus che sta continuando a mutare. Hanno inventato il modernismo, il pensiero radicale e la sperimentazione permanente. Hanno infranto le barriere tra le discipline e hanno capito, prima di chiunque altro, che le nuove tecnologie avrebbero cambiato il nostro modo, non solo di fare arte, ma anche di fruirla. Sono stati i primi a non aver paura della storia e a immaginare una cultura antagonista tanto con il passato quanto con il presente. L’esperienza delle avanguardie russe, la visione del mondo scaturita in quegli anni di radicali rivolgimenti, è ancora intorno a noi: nell’elettronica dissonante che ascoltiamo, nelle trame non lineari delle serie tv, nella frantumazione della realtà e nella continua intermittenza tra reale e fittizio a cui siamo sottoposti quotidianamente nei mezzi d’informazione.

Quegli artisti russi di cento anni fa sapevano che la distruzione dell’arte stessa avrebbe portato non all’assenza di immagini ma a una luminosa, gloriosa immagine della distruzione. Noi, cento anni dopo, siamo ancora lì, chini a raccogliere i pezzi, pieni di una strana, paradossale nostalgia per il futuro.

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