05 novembre 2015 16:28

Il 3 settembre 2015 la fotografia del cadavere di un bambino siriano, Aylan Shenu, ritrovato all’alba su una spiaggia turca, aveva travolto le nostre coscienze. Pubblicata in prima pagina da molti giornali europei (a cominciare dal britannico The Independent, che titolava “Somedody’s child”, il figlio di qualcuno), quella foto è diventata subito un’icona contemporanea.

Riverso sulla sabbia, come addormentato, Aylan è diventato il figlio, il fratello e l’amico che avremmo dovuto salvare. In quel momento abbiamo pensato che una sola immagine avesse il potere di cancellare la discordia e l’esitazione che paralizzano la ricca Europa davanti alle migliaia di disperati in fuga da un Medio Oriente in fiamme. Poi però tutti hanno dimenticato, tutti sono passati ad altro.

Lo scorso fine settimana, sul suo account Twitter, la portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati Melissa Fleming ha segnalato, per chi avesse voglia di prestare attenzione, che “dopo Aylan sono morti altri 70 bambini”. Così di colpo abbiamo scoperto che avremmo potuto dedicare ogni giorno la prima pagina ai crudeli discendenti di quello scatto emblematico di un bambino. Non una litania o un evento editoriale. Semplicemente la declinazione dei fatti, per raccontare che il flusso di migranti è un flusso di giovani fantasmi gettati in un limbo alla fine di un lungo viaggio di fatica e paura.

Negli ultimi giorni, dai dispacci d’agenzia, sono emerse con cadenza frenetica delle immagini terrificanti. Come se i fotografi, spesso allibiti di essere contemporanei dell’eterna tragedia delle frontiere fatali e dei porti irraggiungibili, non volessero più trattenersi dal puntare l’obiettivo sui corpi inermi di bambini e adolescenti. La raccapricciante celebrità postuma toccata ad Aylan ha fatto saltare un tabù. A chi appartengono le immagini dei morti? Abbiamo il diritto di mostrarle? A queste domande non c’è risposta, tranne quando la forza degli eventi rompe i divieti e le reticenze e ci costringe a confrontarci con questi sguardi che non incroceremo mai più.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato su Libération. Clicca qui per vedere l’originale.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it