25 ottobre 2016 15:21

Uno dei grandi luoghi comuni è che le opere d’arte sono la perla che luccica e sempre luccicherà in quel gran porcile che è la storia. Al capo opposto c’è l’altro grande luogo comune, figliato da una famosa proposizione di Theodor Adorno: dopo Auschwitz scrivere una poesia è una barbarie. Che fare, allora? Bisogna vergognarsi se si butta lì qualche parolina ammirata per gli alberi rossi sfrondati dall’autunno, dimenticando che l’orrore muta ogni frase, anche la meglio riuscita, in una chiacchiera vuota? O è bene congratularsi con se stessi perché l’unica cosa che davvero conta è una spruzzatina di suoni ben congegnati sulla fabbrica planetaria dell’oppressione e della violenza?

Il dilemma è vecchio ma sempre attuale, e tutto sommato lo si può aggirare con un “forse”, il meglio che la civiltà delle parole abbia mai prodotto. Poiché ogni anno in giro per il pianeta si fanno cose orribili mentre l’autunno sfronda alberi rosseggianti, “forse” è bene tacere sulle foglie che volteggiano, e passare a rimboccarsi le maniche. Poiché ogni anno per il pianeta si fanno cose orribili mentre l’autunno sfronda alberi rosseggianti, “forse” trovare parole sempre migliori per dire come le foglie turbinano fa bene ai singoli e al genere umano. L’unico problema è che se le parole si potessero impiccare, i fabbricanti dell’orrore e i loro servi per prima cosa impiccherebbero il “forse”.

Questa rubrica è stata pubblicata il 21 ottobre 2016 a pagina 12 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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